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Volevo diventare famosa - di Silvia Leuzzi

Volevo diventare famosa - di Silvia Leuzzi

...a tagliarmi la testa erano le urla di mio figlio più grande disabile psichico, urla che mi perseguitano e m’inseguono a ogni tratto della giornata e non solo a me....

Giovedi, 19/12/2019 - Salve gente, mi chiamo Silvia Leuzzi, ho due figli maschi e un dolcissimo marito. Fin qui sembra il quadretto della famiglia ideale, ma dietro quella porta di casa ci sono tante storie e tanti urli, da indurre a dire: NON APRITE QUELLA PORTA!!!
Quante volte l’ho pensato tornando a casa, quando fin da fuori si udivano urli scomposti di ragazzini scalmanati. Non era neppure quel frastuono, tipico dei bambini, a tagliarmi in due la testa, erano le urla di mio figlio più grande disabile psichico, urla che mi perseguitano e m’inseguono a ogni tratto della giornata e non solo a me.
Ora è paradossale il fatto che tutta questa pazzia, che spesso toglie lucidità e ragione, sia stata una costante della mia esistenza, una specie di karma della serie: stai karma, che intorno a te non ci sta nessuno con la testa a posto! ( I disegni del destino!)
Verso i sedici anni, rapita dalla poetica di Kerouac e Ginsberg, infatuata di quel modo di vivere: tra readings e serate leggendo versi fino a perdere la voce, decisi che da grande avrei fatto il poeta, non poetessa che mi ha sempre fatto rima con fessa.
Kerouac in un pezzo del suo libro più famoso: Sulla strada, fa un’esaltazione dei pazzi, chiamandoli: pazzi di vita, intendendo tutti coloro i quali vivono dimenticati e per questo battuti, ai margini delle strade anonime delle metropoli americane, ma anche domestiche, commessi esaltati, ubriaconi e poeti, musicisti, mistici.
Affascinata da questa logica della pazzia, mi sono inabissata nei versi di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Patty Smith e Jim Morrison, scrivendo fiumi di parole insulse, che andavo leggendo in giro.
Mi vedevo nel futuro come un’intellettuale scomoda, famosa per le sue poesie scrostate e seguita da paparazzi curiosi.
Mi vedevo su un palco a recitare versi, con sottofondo musicale degno di nota.
Mi vedevo esaltare la pazzia, i barboni e gli ubriaconi, che spesso erano la mia platea più sincera.
Poi come sempre accade agli improvvisatori, mi sono rimessa a studiare, sono stata diligente ma anche stavolta non mi è servito a niente. Studiando, studiando mi sono arresa ai grandi e ho rimesso il fodero alla macchina da scrivere.
Ero guarita dalla mia pazzia letteraria; ero diventata una donna politicamente impegnata, pacata (si fa per dire!), potevo affrontare una maternità, che sarà mai?
Mio figlio Dario, nacque con gravidanza a termine senza alcuna sofferenza. Biondo e con gli occhi azzurri come i bambolotti, mi lasciò stupita, perché ero preparata a un bimbetto bagnato, urlante e piuttosto bruttino. Mi ero letta di tutto, per essere una mamma perfetta, invece nel giro dei primi sei mesi di vita, la sua salute peggiorò con l’inserimento dei primi cibi a base di latte e farine varie. Malnutrizione e malassorbimento, ritardo psicomotorio e poi crisi epilettiche, che vogliamo di più dalla vita? Un incubo: gli ospedali, i neurologi, gli psichiatri, la mia agitazione, la mia poca sopportazione. Non volevo tutto questo, volevo un figlio come quello delle mie amiche! Più che un figlio di giorno in giorno mi sembrava sempre più una punizione alla mia vanità, ai miei sogni.
Caddi in un vortice di stress, nel quale quotidianamente mi trovai a vivere pezzi di letteratura, che tanto amavo, apprezzando i grandi e le loro parole, che diventavano braccia pronte a sorreggermi.
Lungo quei corridoi di uffici, ospedali, c’erano gli impiegati annoiati di Dostoevskij, le assurdità de Il Processo di Kafka e su tutte aleggiava lo sguardo bonario del nostro Manzoni, che se l’intendeva con Pirandello, fino ad arrivare a Tobino. Sembra assurdo ma in questa tragedia immane, mi tennero per mano tanti autori, alcuni dei quali si perdevano nella notte dei tempi.
Affogai nella disperazione del quotidiano, il sogno di una vita avventurosa e spericolata, tutta versi urlati da finestrini di auto in corsa, al suo posto le porte chiuse, rabbia e impotenza.
Facendo un bilancio di questi ventotto anni insieme a mio figlio Dario, posso dire con orgogliosa disperazione, che in ogni dove ci si rechi in sua compagnia, mi conoscono subito tutti e spesso, davanti alle sue grida, buttato a terra che scalcia, ho quel guizzo poetico, che ricorda Campana o perché no il grande Baudelaire, per non scomodare Erasmo da Rotterdam e il suo Elogio della Pazzia.
Volevo essere famosa per la letteratura, invece la letteratura è venuta a casa mia, a rappresentare se stessa, non nell’aspetto migliore ma in tutto il suo dolore.

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