Bartolini Tiziana Giovedi, 01/09/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2016
“Al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare un'importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio. Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la bandiera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un'offesa. Allora i nostri figli, tediati, s'allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d'una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c'è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d'esser continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d'ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi. (…)”.
Facciamo ricorso alle parole di Natalia Ginzburg (da Le piccole virtù,1962), ricordandola nel centenario della nascita, per trovare conforto e saggezza. La scuola è sempre un argomento delicato la cui complessità rende impervia qualsiasi sintesi, a partire dalla prospettiva che si sceglie: quella dei genitori o degli insegnanti è diversa dal vissuto dei discenti, che a loro volta contengono mondi non omogenei. Poi c’è la società nel suo insieme, che si aspetta per i/le giovani costruzione di competenze, cultura generale, preparazione professionale. Addirittura un’introduzione alla cittadinanza, erede dell’educazione civica ormai archiviata. Grandi aspettative, molte polemiche, poche consonanze. L’assenza di una rotta condivisa produce paradossi che tengono insieme sperimentazioni ed eccellenze con un alto tasso di abbandono scolastico, edifici all’avanguardia e strutture fatiscenti. La scuola è in evidente affanno. E non sono solo i numeri a raccontarlo, certificati anche dalla Corte dei Conti che ne ha descritto l’impoverimento complessivo (dal 2008 al 2014 tagli per 8 miliardi, meno 100mila dipendenti, meno 16 per cento di spesa per stipendi), ma anche l’età degli/delle insegnanti: il 58 per cento ha più di 50 anni, il 5 per cento meno di 35 (2014). Nella scuola lavora un terzo dei dipendenti statali (prevalentemente donne) in un quotidiano corpo a corpo con un mondo che cambia velocemente. Difficile immaginare, in tale contingenza, che sia la rigidità delle norme a restituire brillantezza allo smalto perduto. Ha ragione Umberto Galimberti (DRepubblica, 30/7/2016) quando osserva che alcune occupazioni investono “non solo il nostro fare, ma soprattutto il nostro essere. Tale è il lavoro del medico, del prete, dell’artista, dello scrittore, e del professore” rispondendo ad una insegnante - Regina Sassanelli - che racconta di essere criticata dai colleghi perché, per superare il gap comunicativo con i suoi allievi, “intrattiene rapporti epistolari pomeridiani tramite whatsapp”, quindi oltre l’orario di lavoro. Viviamo in un tempo in cui la passione e la dedizione per un mestiere possono anche affidarsi alla smorfietta di un emoticon. Ben venga, se consente di restituire autorevolezza ad un ruolo, quello del docente, che nessun accordo sindacale può ricostruire.
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