Sei donne raccontano i fumi velenosi dell'ILVA. Il documentario di Valentina D'Amico
La svolta. Donne contro l’Ilva. Il documentario di Valentina D’Amico racconta l’indignazione di chi vive in prima persona nella trappola del sistema Ilva, di chi respira la falsa alternativa tra diritto al lavoro e alla salute
Venerdi, 31/05/2013 - Donne contro. Contro quel muro eretto per blindare il sistema ILVA, che però non le separa dai suoi fumi velenosi. Contro quella connivente barriera di silenzio, sei donne hanno deciso di raccontare e di raccontarsi. Ferite, arrabbiate, ma senza vittimismi, con dignità.
Sullo sfondo non solo ciminiere, ma anche stralci di un’altra città possibile.
Brevi sequenze sulle origini di quel sogno di benessere, che agli inizi degli anni ‘60 l’industrializzazione portava con sé ma che spesso si è rivelato una trappola, in particolare per Taranto, dove è iniziato un amaro risveglio: un ritratto realizzato da Valentina D’Amico nel documentario La svolta. Donne contro l’Ilva, girato dalla regista salentina nel 2010 e “menzionato” in più di un festival cinematografico. Ciononostante la sua distribuzione resta confinata in un ristretto circuito. Gli ultimi accadimenti ne rendono ancora più urgente la diffusione e la visione: essenziale, senza eccessi, è un racconto non urlato, che si affida alla potenza della parola, quella delle protagoniste, mentre le immagini dell’acciaieria fanno da sfondo pur essendo pervasive come i suoi fumi.
Nulla viene omesso, tanto meno gli aspetti più agghiaccianti: la camera entra all’interno della palazzina Laf, dove si è tentato di ridurre ben 70 dipendenti a delle “maschere”, di annientarli come persone, per indurli così a dimettersi in quanto diventati “scomodi” in azienda; viene mostrata la arrogante volontà di mettere tutto a tacere da parte del “padrone”, che strappa il microfono a chi tenta di far luce, di penetrare oltre quei cancelli, ordina di fermare i macchinari al sopraggiungere dei controlli, elargisce premi per contenere le denunce di infortuni e dare così un’immagine mistificata dell’ingranaggio. La legge del profitto riduce gli operai ad un numero di matricola e qui ha indotto ad ignorare il diritto alla salute, di chi ci lavora e di chi abita accanto a quel mostro infuocato. Una tenue rassegnazione sembra essersi insinuata in alcuni di loro, non in tutti, non più.
Mentre fuori è ancora buio, la camera sale sull’autobus che conduce i lavoratori all’interno di quella immensa cittadella di altiforni e gas nocivi. La reazione però si fa sentire dall’esterno in chi assiste alle conseguenze di quella trappola, mogli, madri, in chi respira quell’ “aria svenduta”: l’indignazione ha la voce delle donne, che prendono la parola per raccontare e per ribellarsi al silenzio. Per rompere quelle catene che obbligano ad una falsa alternativa, un mascherato ricatto.
Storie diverse, tutte legate da un comune filo rosso che le avvita al medesimo infernale congegno:
Margherita Pillinini, ex impiegata Ilva, racconta le pressioni subite, le ingiunzioni di declassamento per indurla a licenziarsi. Destinata ad essere internata nella palazzina Laf - laminatoio a freddo - scampa a quella sorte solo perché nel frattempo il giudice ne aveva disposto il sequestro. Ancora in pochi ne conoscono l’esistenza: era un reparto punitivo dove nel 1998-1999 vennero confinati gli impiegati che si erano rifiutati di lavorare con qualifiche e mansioni inferiori a quelle maturate. Eppure Francesca Caliolo continua a credere che non ci sia un solo modo per fare il datore di lavoro! Moglie di Antonino Mingolla (interpretato da Alessandro Langiu, unico attore professionista), operaio Ilva soffocato da una fuga di gas mentre sostituiva una valvola, Francesca è ora impegnata nella Rete per la sicurezza nel lavoro; suo è il testo “La svolta” scritto dopo il mortale incidente, da lei inviato alla regista.
Al suo racconto si intreccia quello di Patrizia Perduno, compagna di Silvio Murri, un altro operaio Ilva schiacciato dal ponteggio su cui lavorava, al cui processo Riva non è stato neanche imputato, ma ha pagato con la condanna ad un anno di reclusione l’operaio che lavorava con lui!
Si aggiunge la voce di una madre, Vita Tinella, che nello stabilimento ha perso il figlio Paolo Franco. Tutte si sono costituite parte civile nei processi per quegli incidenti, dove la responsabilità non è stata attribuita all’imprenditore o ai dirigenti ma a chi è delegato alla sicurezza.
“Nessuna medaglia per quei martiri del lavoro”, né alcuna giustizia per i familiari delle vittime che Riva considera “perdite fisiologiche”, eppure lo stabilimento ne vanta il triste primato italiano, 43 in 15 anni! Nessuna relazione è stata attestata tra il gettito delle polveri nocive e l’aumento del numero dei malati di cancro fra chi vive nelle zone limitrofe – nella città si registra una crescita del 31% di malati di tumore – né con la crescita esponenziale di altre patologie. Nel documentario due delle testimonianze sono segnali di questo disastro in corso: Anna Carrieri, abitante del quartiere Tamburi da 48 anni, ha perso l’uso delle gambe, improvvisamente, senza alcun precedente sintomo. Le è stata diagnosticata una “mielite trasversa”, il suo sangue è risultato pieno di metalli. Dalle istituzioni a cui ha scritto non ha mai ricevuto alcuna risposta. Caterina Buonomo, figlia di un dipendente Ilva e mamma di Antonio, ricorda il momento in cui le è stata comunicata la diagnosi di autismo quando il suo bambino aveva solo 18 mesi di età: allora l’isolamento del piccolo sembrava dover inghiottire tutta la famiglia. Il suo sguardo invece trasmette coraggio e speranza, per lui e per le mamme che come lei devono decodificare questo mondo a chi non ha gli strumenti per farlo.
Associazioni come “12 Giugno” - a cui hanno aderito Vita e Patrizia - come Peacelink, combattono accanto a queste donne, indomite militanti perché si prenda coscienza del disastro, nascosto nell’aria che si respira e negli alimenti con cui ignare nutrivano i loro figli…
I racconti sono accompagnati dalle note di brani che sembrano entrare e vibrare sotto la pelle di chi in silenzio si fa spettatore di quelle immagini, si alternano ballate malinconiche a ritmi rock arrabbiati. Un filmato che lascia attoniti. Al senso d’impotenza, allo sconcerto “deve” però seguire la rabbiosa volontà di sapere, di spezzare il muro del silenzio, di fermare quel meccanismo. In attesa di una “decisione politica” sulla sorte dell’acciaieria, la presa di coscienza individuale è un dovere morale affinché tutti/e siano parte attiva della svolta.
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