Se (anche) la religione non può fare a meno della tv
Don Matteo docet..... - Aumentano le trasmissioni televisive e le ore dedicate alla religione cattolica mentre scarseggia l’informazione su altre confessioni
Stefania Friggeri Lunedi, 18/04/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2016
Don Matteo, il sacerdote capace di risolvere oscuri delitti, potrebbe essere paragonato a Miss Marple, il personaggio, dopo quello celebre di Poirot, creato dalla fantasia di Agata Christie per portare un elemento di novità entro i canoni del giallo classico. Potrebbe… se letto ingenuamente. Perché in Italia la tv non si limita al simpatico don Matteo, ma si allarga a programmi di intrattenimento ove si parla, con grande disinvoltura e complici ammiccamenti, di guarigioni miracolose, di apparizioni, di visioni e simili amenità? In verità il miracolistico attira da sempre i credenti facili alle lacrime, fiduciosi nella potenza e nella benignità di un dio che, rispondendo alle preghiere di una singola creatura, la fa sentire unica, speciale, prescelta. Questa religiosità infantile che si esprime in una forma propiziatoria e superstiziosa, è presente in tutte le religioni e ad ogni latitudine, pertanto le persone soggette all’infatuazione religiosa vanno comprese e rispettate.
Stupisce però che ancora oggi, dopo le aperture del Concilio Vaticano II e l’alito rinnovatore che sembra attraversare la Chiesa con l’elezione di papa Francesco, la gerarchia non si impegni a scoraggiare il sentimentalismo religioso, la dipendenza emotiva e superficiale dallo straordinario. Vedi l’ostensione della salma di padre Pio. Le lunghe file che per ore rimangono in attesa di vedere le spoglie del santo confermerebbero la compatta identità cattolica dell’Italia che, invece, è ormai un paese plurale dal punto di vista religioso e sempre più secolarizzato (le statistiche ci dicono che nel percorso della secolarizzazione non vi sono salti, che si tratta di un processo continuo, e dunque profondo e ormai radicato).
Nell’Italia di oggi sono molti coloro che si dichiarano convintamente cattolici: chi entra in chiesa solo per un battesimo o un matrimonio, o per turismo; chi nella vita privata dimostra una crescente autonomia dalle direttive delle gerarchie cattoliche, soprattutto nella vita sessuale; chi dice confusamente “qualcosa deve pur esserci”; chi brandisce il crocefisso come una spada contro la presenza di immigrati musulmani; chi infine, sono gli atei devoti, strumentalizza la religione per colpire, anche dentro la chiesa, le frange progressiste della società. È pur vero tuttavia, come ha detto Benedetto Croce, che “non possiamo non dirci cristiani”, ovvero che non possiamo minimizzare l’eredità storica che ci ha lasciato il cristianesimo. E se l’Europa è intrisa di cultura cristiana, noi italiani lo siamo in modo particolare poiché, oltre al lascito teologico-culturale, la nostra storia si è intrecciata nei secoli con quella del Vaticano la cui influenza è ormai così forte che può permettersi di intervenire nelle questioni interne dello Stato italiano: ad esempio può promuovere le leggi (legge 40) o bocciarle (ddl Cirinnà). Ma questo non avviene per caso. Vale la pena ricordare quando, anni fa, Amato e Bertinotti (allora autorità dello Stato) esprimevano pubblicamente i loro assillanti interrogativi in materia di fede e quando Bersani a Rimini salutava il pubblico di Comunione e Liberazione chiamandolo “la meglio gioventù”.
È vero che “il viandante del terzo millennio è un pellegrino in un mondo secolarizzato che ha smarrito le certezze antiche” (Alessandro dal Lago) ma queste testimonianze (e non sono state le sole) hanno contribuito ad incrementare lo scivolamento pericoloso della classe politica verso la mediatizzazione del discorso religioso secondo modalità scorrette. Infatti, nonostante le ripetute promesse di riformare la Rai, affidandola ad un corpus di figure competenti che lavorano in autonomia, ancora oggi la televisione persevera nel promuovere un’offerta politico-culturale che ignora la pluralità delle voci in ogni settore, dunque anche in materia religiosa: la schiacciante presenza politico-mediatica della religione cattolica nei palinsesti sta infatti a dimostrare che, dopo la breve parentesi risorgimentale, il principio di laicità, fondamento della democrazia, è stato progressivamente eroso nell’intento di compiacere la “chiesa del potere”, di assicurarsi appoggi e… voti.
Secondo i dati pubblicati nel “V Rapporto sulle confessioni religiose e tv”, forniti a “Critica liberale” da Geco Italia (la stessa società cui si rivolge l’Agcom, dunque affidabili), nel periodo tra il 1° settembre 2014 e il 31 agosto 2015 la religione cattolica ha occupato l’86 per cento dei programmi di attualità, con la presenza di un 82,5 per cento di suoi rappresentanti; quasi 60 ore sono state dedicate a programmi che hanno trattato temi religiosi, ma solo un’ora in tutto l’anno (1,6 per cento) ha informato sugli scandali che hanno colpito il Vaticano (pedofilia, Vatileaks, illeciti finanziari); forte l’incremento di trasmissioni dedicate a miracoli, santuari, vite di santi ecc. Le fiction religiose, decuplicate dal 2010 ad oggi, sono raddoppiate nell’ultimo anno: da 311 a 603 per un totale di 487 ore, per esempio Rai2 da 19 a 282 ore, Rete4 da 22 a 56 (una precisazione: il 91,9 per cento delle fiction è sulla religione cattolica, il 6,8 per cento su quella giudaico-cristiana, a tutte le altre confessioni l’1,3 per cento). Ai protestanti e agli ebrei sono dedicate alternativamente, all’1,20 di notte la domenica e il lunedì, due trasmissioni che vengono poi replicate il lunedì mattina una settimana dopo; ancor peggio per le religioni che non sono praticate da italiani autoctoni, come lo sono gli ebrei e i protestanti: se vengono invitati nei talk show gli ortodossi sono chiamati soprattutto per esprimersi sulle problematiche legate alle badanti slave, i musulmani per affrontare il tema del terrorismo, i buddisti per commentare la visita del Dalai Lama ad Assisi (e l’argomento centrale diventa San Francesco, non il buddismo). A parte “Uomini e profeti” (l’unica trasmissione che non parla della “religione” ma riflette in modo libero e problematico sul tema religioso, in onda il sabato e la domenica mattina per il pubblico esigente e preparato di Radio Tre) è grave l’assenza di argomenti che richiedono di essere affrontati da persone acculturate in campo teologico o filosofico. È vero che un gran numero di fedeli chiede ai religiosi rassicurazione e conforto piuttosto che approfondimenti accademici, ma poi, paradossalmente, anche i cattolici sono penalizzati dall’uso di privilegiare nei palinsesti non i valori di fondo del cristianesimo, ma la cerimonia, la messa e il personaggio carismatico. Proprio oggi infatti, quando va allargandosi la convinzione che il tempo delle certezze sia finito, i programmi televisivi accreditano presso i fedeli la popolarità di personaggi la cui vita esemplare può aiutare a riempire di senso anche la vita degli uomini contemporanei, morsi dal dubbio e dalla precarietà: sono papi, santi, martiri ecc. Tra di loro padre Pio, di cui però si tace la cattiva fama dentro il Vaticano, il sospetto di aver utilizzato acido fenico per alimentare le stimmate, la vicinanza al regime. Attraverso queste figure emblematiche o di religiosi invitati nei talk show, la Chiesa cattolica diventa maestra di etica, sia nel senso etimologico di costume, sia nel senso di precetti morali, e infatti, se viene affrontato un problema sociale, al sacerdote è riconosciuta la competenza e l’autorevolezza per indicare i valori guida della società. Ma non è facile camminare sul filo stretto che separa la divulgazione affidabile dalla faciloneria, occorre un bravo comunicatore. Come, appunto, papa Francesco, che non a caso compare in tv tutti i giorni, a differenza di quanto era riservato ad un intellettuale puro come Ratzinger.
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