E’ estremamente difficile far combaciare l’idea di consultorio che si è costruita nella nostra mente di operatori e che si è nutrita delle leggi, delle esperienze e della sperimentazione di tanti anni, con la realtà che si è andata affermando nell’ultimo decennio e che si è ‘infiltrata’ nella quotidianità dei consultori, determinandone progressivamente una mutazione di identità.
Il consultorio ha rappresentato un’inversione dell’approccio culturale e clinico alla salute della donna e ha imposto un modello di intervento che ha ribaltato interpretazioni e metodologie: dalla divisione rigida in ambiti professionali all’équipe multidisciplinare, dalla separazione delle prestazioni alla condivisione dei saperi, dalla delega ai tecnici della salute all’autodeterminazione.
Non si è trattato di un cambiamento esclusivamente procedurale, ma dell’acquisizione di una consapevolezza nuova, della certezza che per tutelare e promuovere la salute delle donne era indispensabile lavorare insieme a loro, favorire l’empowerment, mettere insieme i “saperi” professionali e quelli soggettivi delle donne, per consentire scelte consapevoli – quindi durature – e responsabili in ordine alle relazioni, alla sessualità, alla prevenzione, alla genitorialità consapevole.
In questo senso, la “contaminazione” tra sociale e sanitario e la condivisione delle diverse prospettive con gli obiettivi professionali, sono state un passaggio fondamentale per costruire una voce unica dell’intero servizio, proprio per questo in grado di dare risposte omogenee e globali, che non guardassero solo a parti del corpo o della mente della donna, ma che fossero capaci di mettere al centro la persona, nelle sue diverse e inscindibili componenti, e con quella donna ‘costruire’ un percorso di salute personalizzato.
L’organizzazione attuale delle attività del consultorio e la conseguente modalità di rapportarsi all’utenza, purtroppo non rispondono più alle intenzioni e alle procedure validate e finalizzate a favorire un rapporto diretto e di fiducia tra operatori e cittadini.
Nell’organizzazione quotidiana dei nostri servizi dobbiamo registrare: accoglienze limitate in spazi e tempi ridotti, visite ginecologiche ogni 15 minuti come nei poliambulatori, segreterie telefoniche che forniscono indirizzi mail o altri numeri da chiamare.
Un numero sempre più esiguo di operatori riesce a garantire interventi nelle scuole del territorio, occasione unica per presentare il consultorio e per parlare di prevenzione alle giovani generazioni.
Sempre più spesso il Percorso Nascita viene effettuato in luoghi diversi dal consultorio, gestiti da una sola figura professionale – l’ostetrica – separato dalle altre attività, e dal resto dell’équipe.
Come si può facilmente intuire, questa modalità non favorisce l’empowerment né la promozione della salute, ma ripropone le prestazioni professionali parcellizzate. Inoltre, l’inserimento dei Dipartimenti delle Professioni nell’organigramma dei nuovi Atti Aziendali ha determinato il prevalere degli aspetti burocratici, incidendo negativamente sull’operatività del servizio: un atteggiamento ambulatoriale di tipo difensivo che, per definizione, è all’opposto dell’ascolto e della accoglienza.
Certo, bisogna tener conto del blocco delle assunzioni, delle nuove norme e dei limiti che il commissariamento della Sanità del Lazio ha introdotto, ma il problema è delle scelte politiche e tecniche che vengono effettuate.
Si deve anche dare atto alle diverse componenti dell’amministrazione regionale dell’impegno profuso per conoscere più approfonditamente la realtà attuale dei consultori, attraverso l’apertura di tavoli tematici partecipati. A questa apertura istituzionale però non corrisponde ancora un cambiamento di direzione nella gestione organizzativa delle attività e della metodologia di intervento. La preoccupazione che esprimo è proprio legata all’accelerazione che negli ultimi mesi ha messo in atto - in tutte le Asl, anche se con modalità leggermente diverse - un vero e proprio cambiamento dell’identità del servizio.
Se si proseguirà su questa strada, consentendo di stravolgere un modello di intervento che ha dato risultati importanti - e che è stato riconosciuto dagli organismi internazionali come strumento di pianificazione familiare, quindi di progresso per le popolazioni svantaggiate - si assisterà ad un ulteriore impoverimento e ad una perdita di efficacia nel campo della promozione della salute sessuale e riproduttiva e della prevenzione, con un aumento dei rischi legati a quest’area e dei costi economici e umani conseguenti.
Se il modello a cui si tende è questo, si abbia il coraggio di ammettere di aver rinunciato a percorrere la strada che mette la persona al centro delle scelte di salute, si metta fine a questa ambiguità, si effettuino le scelte che si ritengono più opportune, ma non si utilizzi una parola che rimanda a una realtà diversa e ormai perduta.
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