... Il romanzo è ambientato in provincia di Napoli dove scorrono, da poco uscite dall’incubo della Seconda Guerra Mondiale, le vite di una famiglia appartenente alla borghesia ...
“La trousse” è il nuovo romanzo di Matilde Tortora, scrittrice, saggista, poeta, edito da La Mongolfiera. Non ho inventato niente - mi ha detto Matilde Tortora parlandomi del suo romanzo - mi sono ispirata a fatti di cronaca che sono accaduti e che, purtroppo, continuano ad accadere ancora oggi. È vero, Matilde Tortora non ha inventato niente ma, allo stesso tempo, aggiungerei io, ha inventato tutto, come in ogni buona finzione letteraria. I fatti, alcuni di cronaca nera, da cui ha tratto ispirazione, smettono, grazie alla trasfigurazione che di essi avviene attraverso il romanzo, di essere singoli fatti circoscritti nel tempo e nello spazio, per diventare qualcosa che riguarda tutti, e qualcosa che tutti profondamente smuove.
Il romanzo è ambientato in provincia di Napoli dove scorrono, da poco uscite dall’incubo della Seconda Guerra Mondiale, le vite di una famiglia appartenente alla borghesia. La protagonista è Ella, una ragazza in età da marito, che poi si mariterà e avrà una vita difficile a causa dei soprusi e delle violenze fisiche a cui la sottoporrà lo sposo. Sullo sfondo l’omicidio di una donna, una lavorante del padre di Ella, di cui solo alla fine scopriremo interamente l’amara sorte.
Ancora una volta, come spesso accadde nelle opere di questa autrice, al centro ci sono le donne: donne in una condizione difficile, donne segnate da un destino assai duro che noi lettori, grazie al modo in cui la scrittrice sa descrivercele, sentiamo profondamente vicine dal punto di vista affettivo.
Infatti, uno dei grandi pregi della scrittura di Matilde Tortora è, a mio parere, quello di saper illuminare i gesti più minuti dei suoi personaggi, per renderli un po’ anche nostri, quei gesti. Quei gesti che sono quotidiani, che sono semplici e allo stesso tempo sanno essere forieri di tantissime sensazioni. Sono molto “tattili” i personaggi di questo romanzo e grazie a questo si fanno davvero vivi nel nostro immaginario di lettori.
Ritroviamo tutto questo, per esempio, laddove si parla della trousse che serve a contenere la cipria che la protagonista porta con sé per ritoccare il trucco quando si trova fuori casa e che dà il nome al romanzo. E sembra quasi di sentirla tra le nostre dita, la sottile consistenza di quella cipria.
“Quella migrazione della giusta quantità di cipria dalla sua scatola al comparto che nella trousse gli era stato destinato era un’operazione che richiedeva a Ella un’accorta attenzione, far sì che quel compatto da cui si asportavano granelli impalpabili, rosei e volatili acquistasse poi daccapo nella trousse forma e che i granelli si assiepassero, ridivenissero cipria da mettere all’occorrenza sul viso.”
Bellissima, a proposito di semplici gesti che illuminano il racconto, è anche la descrizione del fratello di Ella, musicista, che, con i piatti in mano, percorre il corridoio che separa la cucina dalla sua stanza, luogo in cui si ritira a mangiare e a comporre. E mentre percorre quel corridoio è lui stesso che viene percorso dai ricordi.
“Era come un tappeto istoriato quel lungo corridoio che lui percorreva coi piatti in mano su cui lui stesso aveva disposto le porzioni che voleva mangiare e avrebbe detto che anche i piedi a volte sono capaci di avere uno sguardo.”
Ma la particolarità di questi personaggi, secondo me, è anche il contrasto tra l’essere così vivi nei loro gesti quotidiani e, allo stesso tempo, dare l’impressione di muoversi, in alcuni contesti, in modo artificiale, come degli automi. Come quegli automi che il fratello di Ella conserva in una vetrinetta della sua stanza. Automi che dovrebbero stupire chi li guarda per la loro bellezza e l’incanto delle loro movenze. Tra di essi c’è un uccellino che muove le ali e canta una melodia quasi angelica. Un uccellino che nasconde un dolore: non potrà mai volare.
Così sono i personaggi di questo libro che talvolta devono recitare, di fronte agli altri, una parte, mettendosi addosso una patina scintillante che però è priva di spontaneità e va a coprire una grande afflizione. Essi sono destinati a muoversi in società attraverso gesti stereotipati, come di automi, per non cantare la sofferenza del non poter volare. Da questo deriva, secondo me, la fortissima malinconia che trasuda da questo romanzo oltre che la sottile inquietudine che lo attraversa, come in questa descrizione, cruda e poetica, delle violenze domestiche che Ella è costretta a subire.
“E tuonava di pugni la porta chiusa del gabinetto e Ella temendo che Lui riuscisse a schiavardarla, si raggomitolava ancora di più stretta alla porta per impedirglielo e in quei momenti le passava davanti agli occhi il frustino in mano a Don Antonio quando la mattina l’accompagnava a scuola col calesse e Don Antonio sferzava in aria per dare il via al cavallo senza mai toccarlo però e là, terrorizzata raggomitolata terra, a Ella sembrava di essere anche lei ridotta ad animale e si stringeva forte le mani al petto, temendo che il cuore le sfuggisse via per tanto dolore.
Una volta, per giorni e giorni Ella dovette sforzarsi di comandarsi di camminare eretta, non perché Lui fosse riuscito a percuoterla con la currea, che lei, quando Lui la secutàva inseguendola per tutta la casa, il più delle volte riusciva a sfuggirgli, ma perché forte sentiva in lei come un comando di camminare carponi, non ce la faceva più a stare eretta.”
E ciascuno di questi personaggi, anche il più piccolo, anche il più secondario, diviene profondamente significativo nel testo, perché la scrittrice sa metterlo al centro del palcoscenico e illuminarlo, con un unico e sfavillante fascio di luce.
Come ad esempio una suora, portinaia della scuola frequentata dal bambino di Ella. Una suora grassa, che dietro alla veste abbondante cela il suo mondo sofferto. E si diceva che un bambino, anni prima, fosse caduto nel pozzo della scuola, proprio mentre lei era in cucina ad abbuffarsi, e a dimenticare il suo dolore.
Quella suora, prima di restituire ciascun bambino alla rispettiva mamma “[…] si muoveva con il bambino che aveva fatto mettere dietro l’ampia gonna marrone badando a che il bambino non sbucasse fuori, così, tanto per fare aspettare sua madre e magari studiarne un poco i lineamenti, riuscire a indovinare che cosa volesse dire essere una madre.”
La suora portinaia viene descritta per poco più di una pagina, ma quella sola pagina pare un romanzo intero, tanto rimane impressa.
Infatti, ogni capitolo, pur essendo fortemente legato agli altri, è anche una narrazione a sé. Una narrazione che rischiara ora questo ora quel personaggio, lasciandoci, alla fine, degli spezzoni di pellicola luccicanti, simili a quelli che Ella e sua sorella, ragazzine, andavano a farsi regalare dal proiezionista, al termine del film.
E noi lettori, come quelle due ragazze, li guardiamo e li riguardiamo quegli spezzoni luccicanti, non stancandoci mai di far rivivere nel nostro immaginario quelle tante storie che, scopriremo alla fine, non sono che i lati di un’unica, dolente, storia.
In copertina 'Vento' di Luca Russo, acquerello e matita colorata su carta artigianale
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