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Riflessioni in corsia:Renato Barile, infermiere a Milano. A cura di Ivana Carpanelli

Riflessioni in corsia:Renato Barile, infermiere a Milano. A cura di Ivana Carpanelli

Amo il mio lavoro per come mi completa Odio il mio lavoro per come mi rende triste

Sabato, 29/01/2022 - La pandemia COVID-19 ha costretto il mondo sanitario ad una profonda ricostruzione dei propri significati e dei propri valori, tra cui quello della cura. Alla luce di quanto vissuto dopo circa due anni di una emergenza sanitaria e sociale, che non è ancora finita, in questo spazio raccogliamo le riflessioni, le esperienze e le proposte maturate in questo periodo da parte degli infermieri che, a vario titolo, lavorano nella sanità. Lo scopo non è alimentare le polemiche su quanto avrebbe dovuto o potuto essere fatto, ma  contribuire al dibattito su ciò che è bene fare, ciascuno per la sua parte. Questa serie di articoli inizia con le parole di Renato Barile, un infermiere di un grande ospedale di Milano che fu tra i primi ad accogliere pazienti covid in città, e che è rimasto in prima linea nelle successive ondate della pandemia.
“Durante la prima ondata mi ritrovai da infermiere in prima linea, tanti furono i morti che ogni turno intristivano le mie giornate. Soli senza alcun conforto.
Una notte decisi che avrei dovuto confortare anche i morti con una carezza e un segno di croce sulla fronte.  Al sacerdote fu vietato. La domanda fu "È compassione o senso del dovere?"
Ciò che era giusto o sbagliato non aveva più senso.

Il 30 marzo 2020 Renato scriveva
Lavoro.
Ti svegli la mattina, hai un peso sullo stomaco. È l'ansia di dover andare dove non vuoi.
Ci pensi un attimo e dici  "Ma tutte quelle persone vanno aiutate, è il mio lavoro, ho scelto io di farlo, devo andare". Esco, mi metto in macchina, nel tragitto penso e ripenso, ripasso le procedure, vestizione, svestizione, zona contaminata, zona pulita… 
Oh Dio che ansia!  Ho paura di ammalarmi, i miei figli mia moglie. No devo essere forte. Vado, faccio ciò che devo, combatto.
Entro in Ospedale, il mio Padiglione era così bello solo un mese fa con tutte quelle vetrate cosi luminose.

Oggi mi sembra un’enorme bara bianca. Con la morte nel cuore timbro, caffè al volo alla solita macchinetta, guanti mascherina distanziamento tra i pochi presenti, sguardi tristi.

Via in spogliatoio. Sembra la vestizione del condannato a morte, tra colleghi si avverte una forte tensione, pochi sorrisi.
Mi faccio ulteriore coraggio entro in Reparto.

La mascherina la tuta già mi opprimono.

I colleghi della notte ti accolgono felici. "E’ arrivato il cambio dopo 12 ore ... che meravigliosa visione ...uscire finalmente da questi scafandri e respirare aria pulita".
Io invece penso "beati loro che tornano a casa". 
Ma via! C'è già tanto da fare, l'ansia inizia a svanire 
Ecco ...è morto ...da solo, senza nessuno senza conforto. L'unico conforto è la carezza virtuale che tu puoi dare ad un corpo segnato, ora freddo e non più bollente. 
Da solo piango, penso e piango, piango spesso.
Che buio dentro. Voglio uscire, passeggiare all'aria aperta, mi mancano ancora 6 ore ...
Quella serenità perduta.

Rivoglio la mia vita 
Rivoglio la mia normalità
Amo il mio lavoro per come mi completa
Odio il mio lavoro per come mi rende triste 

Oggi, fine gennaio 2022, Renato ci dice:
Questa esperienza, pesante, oppressiva, triste, non è ancora finita. A distanza di 2 anni ciò che ho visto, sentito, provato, è ancora chiuso dentro di me.

Credo, o meglio spero, di essere sopravvissuto emotivamente, ma ogni volta che penso o parlo della mia esperienza si sveglia in me un vulcano di emozioni, fortunatamente non tutte negative, ma pur sempre forti e difficilmente controllabili.

Mi rimane il tocco dolce di chi mi ha chiesto aiuto, gli occhi sbarrati dal terrore, le parole di conforto tra colleghi senza le quali nessuno di noi sarebbe riuscito a compiere questa impresa, giorno dopo giorno.

Nonostante tutto …. rimango un infermiere che lavora con il cuore.


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