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Quello che l’otto marzo ci dice

Quello che l’otto marzo ci dice

Condividiamo qui alcune riflessioni scritte da Daniela Piana, professoressa di scienza politica all'Università di Bologna.

Venerdi, 07/03/2025 - Siamo. Incerti, tentennanti, a passi alterni e non certi ci avventuriamo in quello che è chiaramente un nuovo mondo. Lo è. Anche se sovente indulgiamo nel dire che non è così. E rammendi di qualcosa che non esiste se non nelle vestigia svuotate ovvero abbandonate su una battigia nebbiosa di passato ormai desueto non servono quando si tratta di prendere il largo. Dove? Non chiediamo. Non è dato sapere. Il dove sarà esito di scelte che sono nell’oggi. Ora. Qui. E noi.
Tutti. Noi chi? Quali sono i confini di questo noi che non può e non deve dominare e assorbire la persona. Essa, nella sua autonoma determinazione. Quel cielo che si aprirà ad ogni miglio navigato sarà così come ciascuno di noi contribuirà a farlo.
Ci ha insegnato quasi lo volessimo dimenticare la pandemia quanto un solo battito di ciglio può riverberarsi come suono in uno spazio che eco fa ad ogni io che si solleva. Ora dobbiamo apprendere nuovamente la grammatica del noi a partire dall’io.
Non lo vogliamo un io che si perde nel mare determinato anonimo ed asettico che dai dati crea entità matematica che è potente perfetta ma senza respiro. Non lo vogliamo un io che non riconoscendosi come attore della storia e nella storia si accodi a ciò che media ormai opachi trasmettono come verità artificiose e fabbricate.
Ma non vogliamo più nemmeno un io che sia solo e che solo decida in una forma di autoritarismo che non è autonomia.
Perché l’autonomia ben si combina con la responsabilità. Non l’autoritarismo.
La responsabilità del sapersi e sentirsi in relazione con l’altro. La persona che non sono io. Vicina o lontana nello spazio o nel tempo.
Chiediamo all’otto marzo di lasciarci una lezione. Un messaggio su cui pensare in modo che non passi invano.
Che non sia la celebrazione di un giorno. Ma un faro su un metodo, una grammatica. Quella della necessità morale prima ancora che giuridica di riconoscere la autonomia di ciò che vivente è altro da noi. Di quello spazio nel quale i “dovere essere” nel mondo, ruoli diversi che si coniugano con fatica, ma che si combinano nella complessità della vita, si danno.
Non bisogna accontentarsi, tuttavia. Non è sancire un principio che risolve. Non è enunciare un proclama che cambia. Non è rappresentare una lacerante divaricazione del reale sociale che ci traccia la via del fare.
Di un metodo abbiamo bisogno. E di una grammatica. Essa parla di una sintassi dove l’uguaglianza è un percorso che va costruito assicurando che siano date alle donne le tutele necessarie affinché non solo possano esercitare le loro libertà ma anche vivere nel pieno fiorimento della loro persona le conseguenze di quell’esercizio. Essa parla di una forma di sguardo che dinnanzi alle diversità – ossia dinnanzi alla umanità tutta che ogni io e diverso dall’altro – ha occhiali per vedere la combinazione unica e meravigliosa di autonomia e responsabilità. Essa parla di una grazia che sta nel danzare sull’acqua della vita con la consapevolezza di esserne parte e non padroni.
Così alle nostre bambine e ai nostri bambini dovremmo raccontare di un otto marzo che sa di giallo come il sole che guarda alla repubblica come cosa di tutti dove ciascuno non è dominato né dominante.
L’otto marzo glielo dovremmo raccontare come si narra la storia delle dita delle mani – intelligenze sensibili che nessun dato potrà mai ridurre a numero perché ne perderebbe la delicata carezza – che nel tepore della notte che si fa alba di primavera tessono vestiti nuovi e di quelle vestigia di un mondo che è stato trattengono alcuni fili perché la storia offre nutrimento e lezione a ciò che una anima aperta ad apprendere può portare nel futuro.
Narriamo di un otto marzo fatto di un ricamo sapiente silente e responsabile. Dalle donne apprendiamo che fra l’io e l’altra persona uno spazio di vita deve darsi e un filo di tessitura di relazioni gentili può farsi.
A noi di farlo. A noi di regalare ai nostri bambini e alle nostre bambine la grammatica perché continuino, a modo loro, a tessere quell’abito nuovo che sarà vestito mentre le vestigia del passato riposeranno serene e pacificate nella memoria della storia.

Daniela Piana

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