Parliamo di bioetica - Il cammino “oltre il muro” di Lolita D’Arienzo, ex ballerina immobilizzata dalla SLA
D'Arienzo Lolita Giovedi, 26/04/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2012
Fino a cinque anni fa ero praticamente immobile.
Sembra strano, lo so, che dica questo proprio io… Io, che quindici anni fa ho ricevuto la sgraditissima visita della Signora SLA, che poi è rimasta sempre lì piantata nel salotto buono della mia vita.
Io che ancora oggi posso muovere solo le ciglia per comunicare e mezzo labbro e due occhi come lampade colorate per trasmettere un sorriso o una contrarietà.
Eppure, è assolutamente vero che fino a quattro anni fa ero immobile e che oggi mi muovo. E come se mi muovo! Ho capito che la Signora SLA non è riuscita ad arrivare fino al mio cuore né ha intaccato il mio cervello. Anzi. Ho capito, e ho deciso di far capire, che prima che una malata io sono una persona
E la vita, quella vera che ti fa persona nella sua pienezza di affetti, desideri, pensieri, sogni, scelte, emozioni, io la vivo tutta. O almeno accetto di viverla, desidero viverla. Ma fino a cinque anni fa ero ancora praticamente immobile.
No, non mi riferisco ai pochi metri quadri della mia bella stanza-ergastolo, al tempo che fatica a passare, segnato dall’orologio sulla parete, che è la prima cosa che vedo al mattino, l’ultima prima di chiudere gli occhi e l’immagine fissa durante la giornata. Non mi riferisco a quell’immobilità che ti fa constatare anche quanto ci mette una zanzara per pungere: te la vedi addosso per diversi minuti, mica una semplice succhiata veloce, e ti distrai anche a guardarla e non puoi fare nulla per evitare la puntura.
Mi riferisco a quella immobilità che ti fa sentire come una melodia spenta, un’edera senza muro. Quell’immobilità senza cura, anche se sei curata. Il gelo silenzioso del terrore, del dolore, della disperazione, che ti paralizza tutta e che sembra non potersi sciogliere se non con un urlo infinito.
O con un amore infinito.
Quello che ho sempre provato per Vittorio, il mio bambino-adolescente-giovane-quasi adulto… il mio sogno. Che stava per essermi strappato insieme con le mie forze, che poi qualche anno fa mi è stato restituito dalla vita e mi ridato la carica della vita.
Ma il salto in basso è stato duro, lacerante.
Quando mio figlio era neonato e la mattina si svegliava accanto a me e al padre, ero talmente felice da averne quasi paura. Ma allora mi bastava guardare lui e mio marito, sentire la voce dei miei familiari e rassicurarmi e pensare che la vita sarebbe continuata sempre così.
Poi è morto babbo, e dopo un po’ di tempo anche mamma, e con loro tutte le certezze di essere figlia per sempre. Poi è morto dentro di me mio marito, e con lui la speranza di un amore sereno. Poi ho dovuto assistere all’agonia del mio corpo ed ho dovuto rinunciare alla certezza di una vita sana e normale. Poi è morta la mia anima, e con lei la fiducia in un’equilibrata vita interiore.
Poi ho dovuto rinunciare all’amica Danza, il mio amore di sempre, la mia “conquista di identità”, la fonte di mille incontri e di un oceano di emozioni.
Spesso mi chiedevo: perché proprio a me? Cosa ho fatto di male? E me la prendevo con Dio, con quel Dio che prima era solo una presenza fuggente e che ora era del tutto sfuggente alle mie invocazioni.
Mi sarebbe piaciuto non esistere, non essere mai nata. Ma purtroppo quando sei nato non ti puoi più nascondere.
E avrei voluto gridare agli altri che “dentro” Lola non era malata. Voleva rimanere viva, donna, madre, Lola. Voleva rimanere Amore. Quel mondo era parte di me e lo è ancora di più da quando è diventato il mio unico mondo. Ma non era facile per gli altri, vederlo. Per tutti, io ero prima di tutto la malata Lola e questo, per me che non avevo ancora costruito le mie difese, mi faceva sentire più malata ancora.
La malattia, la solitudine, la maternità negata mi avevano rinchiuso in una gabbia di muta disperazione, dietro la tenda che mi separava da quel mondo che non sentivo più mio.
Oggi che ho riaperto quella tenda, mi rendo conto che anche quella disperazione non era un grido di morte, ma un urlo di vita. Un urlo che non si era mai spento, e che maturava dentro di me per esplodere e farmi muovere.
Certo, senza la “restituzione” ed il recupero di mio figlio non sarebbe successo nessun movimento. Senza di lui sarei un naufrago e basta.
Poi, grazie al suo calore ho ripreso a navigare. Ho riaperto la porta al mondo e ho visto entrare tante persone che si aggiungevano agli affetti insostituibili ed alla cura della mia famiglia e cominciavano a formare una rete che mi proteggeva, mi dava calore, che forse addirittura prendeva calore da me, che restituivo la forza che mi dava. Ho trovato lo slancio per raccontare me stessa, intuendo che per chiedere di essere capita devi prima tu aprirti per farti capire.
Ho smesso di prendermela con Dio, capovolgendo la rabbia e comprendendo che non era Dio la mia malattia, ma che addirittura la malattia poteva essere il mio Dio. Già, la malattia mi toglieva tanto, ma non mi poteva togliere la voglia e la capacità di amare, poteva addirittura essere un’opportunità di vita.
E così, le dolcezze del passato ho cominciato vederle non solo come doni sottratti ma anche come beni comunque ricevuti. E rispetto al presente ho pensato che, se tanto per me era impossibile, tanto ancora era possibile da realizzare.
Per questo, e con la spinta decisiva di qualche amicizia speciale, ho aperto una corrispondenza con una scuola, ho scritto tre libri, ho accettato di essere guardata, fotografata, filmata, perfino intervistata, ho ripreso ad uscire riuscendo anche a rivedere il “mio” mare di Vietri, ho ospitato a casa mia feste ed incontri, ho perfino organizzato spettacoli teatrali.
Insomma, è avvenuto quello che a qualcuno piace chiamare “l’effetto cerino”: in piena luce, un cerino acceso sembra che non faccia luce…ma… nel buio di una stanza…quanta ne sa fare! E allora, da cosa dipende non vedere la sua luce, dal cerino o da noi?
Ecco, le ciglia, la volontà, l’amore, la spinta degli affetti, mio figlio, la mia testardaggine, la mia sensibilità di persona e di donna, la voglia di vivere: questi sono stati i miei cerini.
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