Sabato, 19/03/2022 - Quando la guerra riporta sul palcoscenico la parola “mamma“ e chiama le madri a proteggere i figli, per difendere il futuro.
In questi giorni di guerra, coinvolta dalla tragedia dell’Ucraina invasa dalla Russia, fra le notizie che si rincorrono - e inducono emozioni, che costringono a riflettere, informarsi approfondire, arrabbiarsi, elaborare i propri pensieri - una mi ha colpito ed è emersa nella sua drammatica violenza, suggerendomi di condividerla, seppur in modo emotivo, “disordinato” e non esauriente, forse aspirando a contributi e riflessioni in merito.
Si tratta dell’esplosione della parola mamma, affiancata, collegata a madre, a maternità, a funzione materna ed oltre. Mamma, una parola che risuona - chiamata, citata, raccontata, urlata - tornando alla ribalta della storia senza aggettivi, ma in tutta la sua “eternità".
E’ sin dal primo giorno della guerra voluta dalla Russia che vengo colpita dall’immagine di un pulman pieno di donne, le stesse che abitano le nostre famiglie con l’orribile definizione di badanti, donne che - intervistate - dicono che stanno tornando in Ucraina per sostenere i loro figli impegnati nel fare la guerra per difendere la loro terra.
Le affermazioni sono rafforzate, confermate dalla pluralità delle voci.
I giorni passano velocemente e le mamme al centro delle notizie non sono più quelle che tornano in Ucraina, ma quelle che a centinaia di migliaia fuggono dall'Ucraina con i bambini e con gli anziani, dividendosi dagli uominni: padri, mariti, fratelli, figli che in patria rimangono, spesso dopo averle accompagnate alla frontiera, per difendere la propria terra, la patria .
L’immagine delle mamme è drammatica: molte sono giovani, con bambini per mano da un lato e dall’altro, valigie con le ruote, o borse o buste, o magari un cane al guinzaglio o un trasportino con il gatto. Un esodo di donne, di madri che fuggono per assicurare il futuro ai bambini, ai figli che le seguono stanchi, frastornati, tristi e talvolta con le lacrime agli occhi.
Ma non tutte ce la fanno. Non tutte possono uscire dal paese ed è il drammatico bombardamento di un ospedale con il reparto maternità a costringerci a guardare l’orrore e ad ascoltare l’insulto che viene diffuso dai russi, che sostengono che quelle atroci immagini sarebbero una messa in scena: attrici messe li a “coprire” un altro uso dell’ospedale per finalità belliche. Peccato che la visione più drammatica di una mamma insanguinata, sulla barella che sembra con la mano proteggere la pancia e così il suo bambino, sarà solo dodici ore dopo accompagnata dalla tragica notizia della morte sua e della sua creatura. La notizia precisa poi che almeno i loro corpi hanno potuto essere portati via dal marito e padre disperato e non sono finiti, come tanti altri nelle fosse comuni.
Ed è da un'altra delle presunte figuranti, secondo i russi, che arriva un sospiro di sollievo.
Lei, mostrata sui teleschermi di tutto il mondo, come un soffio di speranza che si diffonde ce l’ha fatta: è mamma. Possiamo vedere il suo bimbo accanto a lei. Mamme e poi madri che, grazie ai fotoreporter, divengono simboli della resistenza per riavere e garantire un futuro all’Ucraina.
I giorni trascorrono e continuiamo a restare incollati agli schermi per seguire le immagini di questo femminile e ininterrotto esodo: madri che cercano la salvezza camminando a piedi spingendo le carrozzine, con bambini in braccio, rappresentano un'emigrazione tragica e dolorosa, affrontata nella speranza che sia breve, ma che nessuno può ipotizzare quanto durerà.
L’immagine evoca la ricerca di una protezione per riparare, custodire, curare quell’infanzia dolorosa, che pur rappresenta il futuro. Creature che appaiono smarrite, spaesate e che vediamo piangere o sorridere solo quando - passata una frontiera amica come quella polacca -, ricevono una bavanda calda. Il messaggio che ci arriva, considerato il numero impressionante di quelle mamme e bambini che fuggono dalla guerra, sono riflessioni profonde su quella funzione di madre, di cura materna per porre al riparo i bambini, un'attività scelta, accettata con determinazione dalle donne ucraine e che, solo in casi sporadici e autorizzati dovuti alla motivata assenza della madre, viene svolta da padri. Non mancano infatti storie di padri che per diversi motivi personali si trovano in prima fila per salvare i figli.
Erano i primi giorni di guerra quando un papà italiano di professione fotografo, la cui moglie ucraina ha deciso di rimanere a difendere il proprio paese, si è messo in viaggio con i suoi due bambini; ispirandosi al film di Benigni “La vita è bella“, ha viaggiato per alcuni giorni camminando a piedi proponendo ai suoi bimbi il cammino come un gioco pieno di “sorprese” e strani accadimenti, anche dolorosi ma sempre stupefacenti accompagnati dai quali hanno raggiunto l’Italia.
E dunque tornando alle mamme, alle madri guide di queste migrazioni di massa verso l’Unione europea attraverso la porta della Polonia, la porta aperta dell’Europa, è quasi meccanico farsi venire in mente gli annosi dibattiti sulla maternità come ruolo femminile da condividere, da superare come vincolo “all’emancipazione“ della donna solo per fare un breve cenno al tema. Argomenti che, ad un attento lettore già in queste settimane hanno portato a riflessioni, commenti, giudizi conflittuali generatori di nuovi infiniti dibattiti, che mi appaiono stonati e fuori tempo rispetto alla cronaca, all’urgenza della guerra.
Saranno forse da ripercorrere, per il rispetto dovuto a queste madri, in un nuovo tempo di pace.
Quello che io credo, a fronte della realtà che si impone e che emerge con un'immagine prepotente delle donne coi loro figli e non solo, è che quando a decidere è l’emergenza e l’urgenza di attivare un percorso obbligato come questa imprevedibile guerra, quel che prevale è una divisione di ruoli e compiti che si basa sul far si che ognuno si dedichi a quanto ha sempre fatto e sa fare meglio o su cui ha una maggiore esperienza, attitudine, velocità e capacità organizzativa.
Ragioni discutibili? Certo, le più razionali, rapide ragioni che ci portano a vedere contemporaneamente gli uomini, i padri soldati guerrieri, ma senza che questo escluda tante giovani donne, probabilmente libere da responsabilità materne, impegnate in prima fila a fianco degli uomini. Impossibile ignorare le immagini di giovani ragazze impegnate con bottiglie di bevande note a tutte noi (come birra o coca) da trasformare in bombe a mano, o occupate a riempire sacchetti di sabbia per rallentare l’avanzata del nemico, e ancora alcune immagini di giovani coppie abbracciate al loro ideale per difendere il paese?
Forse tutto questo ci dice in modo violento che questa guerra, che mai avremmo immaginato e tanto meno voluto, ci mostra con brutalità che tutte le guerre fermano, bloccano, sospendano la civiltà, congelano progresso, sviluppo umano e umiliano il progresso dei rapporti, i ruoli, le sane ambizioni degli essere umani.
E così se le donne sono riportate al loro ruolo primario di mamme, madri senza nessuna possibilità e forse volontà di sfuggire a questa loro storica funzione, gli uomini sono riportati parallelamente alla gestione della violenza della guerra, all’orrore dell’uccidere per difendere il proprio territorio. Eliminare il nemico perché morte tua è vita mia, perché la tua morte mi permette di far sperare di mantenere il mio diritto a questa terra. Ed a parlare del valore, dell’importanza della parola mamma a rilanciarne il senso in modo sconvolgente nel teatro di guerra, è in un'intervista al giornale Repubblica proprio la vicepremier ucraina Iryna Vereshchuk, responsabile dei territori occupati. E’ lei che nel descrivere il suo difficile e complesso impegno e responsabilità per decidere i corridoi umanitari racconta come pur lontana da suo figlio diciassettenne si senta la mamma di tutti i bambini ucraini e che quanto la ripaga del suo impegno è testualmente "sapere che le mogli, e i figli che portano via, poi chiameranno i loro uomini al fronte e diranno loro: 'siamo al sicuro e in un posto caldo, tu combatti per noi, uccidi i nemici, siamo con te'”.
E’ difficile, a fronte di tanto orrore, sentenziare o giudicare e mettere un ordine fra ragione e sentimento.
Come non sperare che la fine di questo massacro, la fine di una guerra mai immaginata che ci ha prese e presi alla sprovvista, ci permetta di tornare a mettere un po’ d’ordine tra ragione e sentimento tra quanto vorremmo e quanto di fatto avviene.
Oggi non posso che constatare, per rispetto del dolore e del coraggio di queste madri ucraine - ma sono sicura anche russe -, rimandando ogni considerazione a domani, quando con loro, anche le giovani che affiancano gli uomini nella guerra, inizieranno le loro riflessioni producendo energia positiva e rivisiteranno le proprie funzioni e il proprio posto e ruolo decisivo nella ricostruzione che segue ogni guerra.
Paola Ortensi
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