Non c’è mai una violenza giusta - di Monica Lanfranco
La violenza non è mai 'giusta', come sostiene Luisa Muraro. "Si tratta di una affermazione che reputo grave, da parte di una femminista e di una filosofa"
Giovedi, 08/03/2012 - “Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone” è una frase della femminista e poeta afroamericana Audre Lorde.
Indica una strada, offre una suggestione che è anche traccia precisa per costruire una visione: non si dismette un sistema se lo si imita, adoperando i suoi strumenti, seppur sostenendo che è a fin di bene e che i nostri fini sono nobili e alternativi.
Chiaramente lo dice, conoscendo da vicino la fascinazione erotica simbolica e concreta della violenza anche Robin Morgan, altra grande pensatrice nordamericana vivente, nel suo Il demone amante, che nella prima traduzione italiana aveva per sottotitolo sessualità del terrorismo.
Morgan chiede alle donne, specie a quelle di sinistra, di interrogarsi sul fascino che esercita sul genere femminile la violenza rivoluzionaria incarnata dal condottiero che parla del futuro regno di miele imbracciando un fucile dal quale non spuntano fiori, e per il quale la (sua) violenza è giusta perchè il sistema oppressivo è da abbattere.
In questa logica il fine giustifica i mezzi, pur se identici a quelli del potere dominante.
Morgan invita anche a riflettere sul fatto che una democrazia, se nasce da un gesto di violenza, (fosse anche quello di uccidere il dittatore più odioso), porterà comunque i segni di quel sangue versato. Dal letame nascono i fior, non dal sangue.
Nel 2003 Maria Di Rienzo ed io, (che ero reduce dal drammatico G8 in qualità di portavoce del Genova Social Forum per la rete delle donne), scrivemmo il primo libro italiano che intrecciava pratica e pensiero femminista e nonviolenza: Donne disarmanti-storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi.
Con chiarezza sostenemmo che non era vero che le donne in quanto tali erano meno violente degli uomini: dire che per natura non siamo portate alla violenza era, ed è, uno stereotipo e una trappola patriarcale.
Portammo esempi di storia antica e recente in cui le donne avevano scelto la nonviolenza come strumento politico perché nella relazione conflittuale (ma non nella violenza che vede dall’altra parte un/una nemica) c’è l’unica strada per uscire dalla logica del mors tua - vita mea.
Raccontammo le strade di dialogo e di conflitto praticate dalle Donne in nero, (dal cui lavoro tra l’altro originò il bel testo Vita tua-vita mea), da quelle di Not in my name, dalle attiviste indiane seguaci di Vandana Shiva, dalle suore incarcerate e poi assolte in Inghilterra contro la costruzione dei caccia Hawk 955, della voce non incarnata di Lisistrata che fonda la diplomazia contro la guerra maschile e patriarcale.
Nel frattempo giravo l’Italia ospite di piccoli e grandi gruppi di donne, ma anche misti, che in tutto il paese creavano spazi di elaborazione del lutto per le violenze del G8, che ancora oggi resta una ferita aperta non solo nella democrazia, ma anche dentro ai movimenti per alcune derive militariste interne.
Da allora ho cercato sempre di ricordare che prima del luglio 2001 c’è stato un mese prima PuntoG- Genova, genere, globalizzazione, uno straordinario evento di due giorni e mezzo nei quale, (attraverso in particolare le parole di Lidia Campagnano), si era anticipato con lucidità profetica non solo l’arrivo della crisi, ma il realizzarsi di una mutazione antropologica e politica nella quale stiamo ora intrappolate: l’avvento del mercato come potenza pressochè assoluta regolatrice delle nostre vite.
Quell’appuntamento costituì anche però un momento di forte conflitto con il resto dei movimenti misti, perché in più occasioni noi femministe stigmatizzammo l’uso di linguaggio, pratiche e simbolico bellico nel seno stesso di parti di movimento altermondialista, nei confronti dei quali ci dichiarammo totalmente e definitivamente in disaccordo e dopo il G8 Maschile Plurale e Uomini in cammino scrissero un documento di forte disagio circa le pratiche di piazza muscolari.
Un pezzo di femminismo italiano sottovalutò questa nostra analisi e profezia: nel maggio 2001 un gruppo di allora giovani della Libreria delle donne di Milano ci invitò a spiegare cosa ci muovesse a organizzare un momento precedente e separato (non separatista) sulla globalizzazione: le ‘maggiori’ ci dissero che questioni come la globalizzazione erano fuori dall’orizzonte del ‘vero’ femminismo’ decidendo la cancellazione di quel pezzo di storia e di pratiche, che invece purtroppo si rivelarono corrette e anticipatrici.
Oggi apprendo che Luisa Muraro su Via Dogana ragiona di violenza e uso della forza sostenendo che esistono occasioni in cui la violenza può essere giusta.
Si tratta di una affermazione che reputo grave, da parte di una femminista e di una filosofa.
Scrive Muraro: ”La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l'arroganza dei potenti. Anticamente il punto di leva era la parola divina; modernamente è stato l'ideale del progresso. Che oggi è morto, al pari e forse più di Dio. Oggi, a causa della competizione globale, esasperata dalla crisi in corso, l'idea che sia possibile stare meglio tutti non agisce più; prevale quella che il meglio sia per alcuni a spese di altri.
La constatazione che non siamo più animati dal sogno di stare tutti meglio, è un colpo mortale all'ideale dell'uguaglianza e alla politica dei diritti. E impone di riaprire il discorso sull'uso della forza. C'è una violenza nelle cose e fra i viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte: dobbiamo pensarci.
Il discorso può aprirsi dicendo semplicemente che, in certi contesti, a certe condizioni, è opportuno non usare tutta la forza di cui si dispone. Bisogna però tenerla a disposizione, se non si vuole che altri se la prendano: alla propria forza non si rinuncia senza soccombere ad altre forze. Si tratterà dunque di dosarla senza perderla”.
Penso che aperture, più o meno ambigue o possibiliste, verso l’uso della forza o della violenza, giustificata in certi ambiti, sia pericoloso perché genera derive incontrollabili. E’ un luogo comune purtroppo diffuso quello secondo il quale la violenza che fai tu è giusta: cito esempi lontani tra loro ma unanimi su questo aspetto come gli ultras, i brigatisti neri e rossi, i fondamentalisti di tutte le religioni che ritengono che una certa dose di violenza serva a tenere in riga le donne, i casseur, i black block, una certa giurisprudenza, che ammette la legittimità di una certa forzatura sulla donna nel rapporto sessuale, considerando ambiguo il desiderio femminile.
Mai l’umanità è stata animata all’unisono dallo stesso sogno di pace, giustizia ed equità, ma non per questo dobbiamo derogare sulla legittimità della violenza solo perché oggi le ingiustizie sono, o ci sembrano, più grandi. La violenza è violenza: sempre stupida, sempre distruttiva. La violenza intelligente è un ossimoro.
Se si comincia a derogare sull’uso della violenza, magari invocando la rabbia o la disperazione come legittimo motivo per abbandonarvisi o servirsene, pensando che esista una modica quantità tollerabile, (se si sta dalla parte giusta), abbiamo perso già in partenza la scommessa del cambiamento, che ha tra i suoi fondamenti il senso del limite, la responsabilità, e l’esclusione della violenza dall’orizzonte della vita e della felicità.
Abbiamo perso perché rinunciamo alla condivisione, dal momento che la violenza è pratica che salda individualità blindate e deprivate sensorialmente che non dialogano ma si uniformano, militarizzando e gerarchizzando corpi e menti.
La paziente, (di certo faticosa), ma anche divertente e creativa pratica nonviolenta costruisce invece sguardi, visioni, realtà, politiche divergenti, inclusive, felicemente conflittuali.
Scrive Vandana Shiva, che di certo non accademicamente disserta sulle violenze del mondo: “La pace non si creerà dalla armi e dalla guerra, dalle bombe e dalla barbarie. La violenza è diventata un lusso che la specie umana non può più permettersi, se vuole sopravvivere. La nonviolenza è diventata un imperativo per la sopravvivenza”.
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