Ma quanto vale un corpo? Bellezza ideale, ritocchi e identità
Parliamo di bioetica - "Chi si sottopone a dolorosi e a volte rischiosi interventi chirurgici subordina il suo benessere allo strapotere dell'immagine. Il senso delle manipolazioni: piercing, tatuaggi, chirurgia estetica..."
Cinzia Ciardi Venerdi, 27/02/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2015
Quanto ci appartiene il nostro corpo? Quanto c’è di individuale in tutto il tagliare, stringere, curare per rendere sano e bello e quanto invece deriva dalla nostra cultura? Questa riflessione nasce dai miei piedi fasciati per un duplice intervento di alluce valgo. Li paragono ai “fior di loto”, l’antica pratica di fasciatura dei piedi delle bambine cinesi che le famiglie ritenevano requisito di bellezza e di virtù. L’alluce valgo, invece, è una patologia congenita che provoca una protuberanza dolorosa. Durante l’adolescenza pesava sulla mia autostima assieme ai brufoli e altri difetti. La maturità porta all’accettazione delle proprie parti oscure e, quando va bene, anche delle imperfezioni fisiche che diventano parte dell’identità. L’accettazione di questi piedi un po’ scomodi è stato un po’ più impegnativo del resto. Un principio molto sentito nella nostra cultura è quello del valore: ma quanto vale un corpo? Quanto più vale tanto più va preservato intatto. E cosa si intende per intatto? Uno dei valori più quotati è l’efficienza: un corpo è tutelato e valorizzato quanto più è tenuto in efficienza. Ma un intervento comporta dolore, paura, immobilità. Fino al momento in cui i benefici attesi in termini di recupero di funzionalità superano i costi. Allora interviene la paura relativa alla manipolazione del corpo: ferire, amputare, eliminare. Nel mio caso qualcosa di me che ho faticosamente imparato ad amare. Fin da prima dell’intervento un pensiero inaspettato mi ha sorpreso: l’idea che avrò finalmente i piedi belli, nonostante abbia sempre considerato Hybris manipolare il corpo per farlo diventare qualcosa di diverso da ciò che è. L’operazione in questo caso non è Hybris: è un investimento per la salute. Ma la paura è un sentimento umano e il desiderio di bellezza mi aiuta nella presa di decisione. Dopo l’intervento vedo i miei piedi bellissimi, ma provo un’emozione intensa. Sono parte di me ma non li riconosco. Mi rendo conto che anche la mia identità è toccata da questo cambiamento, come se fosse un rito di passaggio. Li chiamo i miei “fior di loto”. E rifletto. Che differenza c’è con la pratica dei piedi fasciati? È sufficiente avere lo scopo di migliorare la funzionalità per giustificare questo intervento? Senza dubbio sì, perché la pratica antica metteva a repentaglio la sopravvivenza delle bambine. Ma il concetto di funzionalità va guardato con attenzione, perché anche i piedi fasciati servivano ad uno scopo ben preciso: limitare la capacità di movimento delle donne, ed in questo senso erano efficaci. Lo stesso ideale di bellezza, anche se a noi occidentali fa raccapricciare la forma raggiunta dai piedi fasciati, rispondeva ad un gusto diverso dal nostro, al considerare valori e canoni estetici diversi. Quelle donne avranno amato i loro piedi fasciati? Immagino di sì. Saranno stati il loro risultato conseguito, l’aver adempiuto alle aspettative del gruppo. E tutto ciò avviene all’interno della famiglia, dove l’appartenenza domina sull’individuo, dove i costi individuali vanno a premiare l’identità familiare. Dove l’individuo scompare dentro il gruppo. Dove i piedi belli, qualunque sia la loro forma, servono a tutelare l’identità del gruppo, che è composto solo da individui conformi. Ovunque si interviene sul corpo, femminile ma anche maschile. Piercing, tatuaggi, mutilazioni genitali, circoncisione, chirurgia estetica, liposuzione, lifting, sono tutte azioni tese a modificare i corpi in direzione di un modello ideale che esprima un’appartenenza. Ogni epoca ha i suoi valori. Forse però non è il caso di accettare un eccessivo relativismo: quando i valori annientano il benessere dell’individuo è il momento di cambiarli. Intervenire è difficile, e soprattutto comprendere dove si può intervenire. Anche nel caso delle mutilazioni genitali il gruppo si fa portavoce di ideali estetici che vengono condivisi ed è difficile far accettare alle madri la forma naturale dei genitali, considerata brutta, per garantirsi una miglior salute. Il corpo dell’individuo deve acquistare valore nei confronti dell’identità collettiva per potersi permettere di subire solo manipolazioni che ne migliorino il benessere. La stessa chirurgia estetica sottostà ad una discrepanza di valore tra individuo e gruppo: chi si sottopone a dolorosi interventi, a volte rischiosi e raramente utili, subordina il suo benessere allo strapotere dell’immagine. Certe pratiche hanno un impatto pesante, quelle tradizionali tese a consolidare il ruolo subordinato dell’individuo nella comunità sono spesso invalidanti: i piedi fasciati miravano a ridurre la capacità di movimento e di autonomia delle donne; le mutilazioni genitali vogliono attuare un controllo sulla fertilità femminile, anche attraverso la riduzione del piacere. Queste pratiche soddisfano una necessità primaria: garantire l’appartenenza. Il problema vive una forte recrudescenza nelle situazioni di immigrazione: di fronte ad una percezione di forte estraneità e a politiche ostili dei paesi ospitanti diventa pressante la ricerca di una identità forte. Solitamente le seconde generazioni, che sentono più acuto il disagio di essere estranei al luogo in cui vivono, ricercano la loro identità attraverso le tradizioni degli antenati. Per questo le pratiche di mutilazione del corpo costituiscono un problema non trascurabile anche nei contesti occidentali. Più l’identità dell’immigrato è minacciata, più forte sarà il richiamo delle pratiche tradizionali. Le politiche miranti a ridurre questi fenomeni devono tenere presente questo effetto: le norme che le vietano sono inefficaci quando rinforzano il sentimento di estraneità. Una politica di accoglienza che miri a riconoscere il valore degli individui attenua il richiamo delle tradizioni ataviche, facilitando la costruzione di una identità nuova, possibilmente radicata nel luogo di vita, che protegga i corpi da mutilazioni fatte per rafforzare vecchie identità.
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