C’è un’onda che sta attraversando il mondo, dall’Argentina alla Polonia, dalla Turchia a Standing Rock, da Kobane a Roma e Torino. Gran parte dei mass media ignorano o tentano di ignorare quest’onda, questo “sciopero delle donne” globale che, a macchia di leopardo e in diverse forme, sta fecondando la nostra coscienza collettiva.
Che qualcosa non stia funzionando nel sistema è già chiaro da molto tempo: odio diffuso, conflitti, ingiustizie, crisi sociali, ecologiche ed economiche sono elementi intrecciati fra di loro, sintomi della malattia terminale che ci pervade e che osiamo ancora chiamare con il suo nome: “patriarcato”.
Parola pronunciata con estrema e pacata chiarezza da Morena Luciani Russo, presidente dell’associazione LAIMA, aderente alle mobilitazioni per la giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne #NonUnaDiMeno e promotrice del flashmob di Torino del 26 novembre scorso.
Un flashmob sui generis, comunque, che ha visto il coinvolgimento di centinaia di donne e uomini in una esperienza simbolica, spaziale, sensoriale, emotiva e artistica. Vestite di nero e rosso, i visi dipinti di ocra rossa con i simboli dell'Antica Europa, la fiumana delle donne di Laima ha fatto il suo ingresso in piazza San Carlo con i tamburi e con un preciso intento:
“Molte associazioni femminili cercano di portare dei modelli di empowerment, di impoteramento. – Ha detto Morena Luciani Russo nel discorso in piazza – Oggi non vogliamo parlare dei dati sulla violenza, perché li conosciamo già e sono dati che spaventano. Vogliamo invece parlare alle bambine e alle donne che non hanno la forza di essere qui, per infondere speranza; vogliamo dire loro che esistono dei modelli diversi. Desideriamo dire a queste bambine che stiamo lavorando con tutte noi stesse per creare un mondo sicuro.
A questo sistema noi ci ribelliamo. E non solo ci ribelliamo, ma vogliamo dire al mondo che siamo tornate. Finalmente siamo tornate. Da dove?
Siamo tornate da quell’angolo buio nel quale ci hanno forzato a stare da 5000 anni a questa parte. E questo angolo buio non è solo nostro, ma di tutta la storia umana: questo angolo buio ha un nome. Si chiama patriarcato, ed è nato in un preciso momento storico.
Il mondo non è sempre stato così e non tutto il mondo funziona così, non tutte le società contemporanee sono patriarcali. Non tutta l’umanità vive in questo sistema.
A volte pensiamo di non poterne uscire, per questo è importante nominarlo e riconoscerlo.
Siamo qui per nominare questo sistema che si chiama patriarcato, sistema della dominanza dell’uomo e del dio maschile di tutti monoteismi, sistema di dominanza sulle donne, sulla terra, sugli animali, sugli uomini e le donne non eteronormativi, su tutti quei popoli che non fondano la loro esistenza sull’accaparramento e sulla guerra.
Nominiamo il patriarcato e ciò che produce, riconosciamolo. Se non lo nominiamo non impareremo a dire no. Non lo riconosceremo nei libri che leggiamo, nei programmi tv, nella musica che ascoltiamo, nelle relazioni che creiamo, nel cibo-non-cibo che mangiamo. Avete mai sentito parlare di patriarcato in televisione? Avete mai sentito parlare di patriarcato dagli economisti? Avete mai sentito parlare di patriarcato dai politici? Avete mai letto questa parola nei libri scolastici? Avete sentito qualcosa che riguarda il patriarcato?
No. E questo è un grosso problema.
Perché noi ci confrontiamo con problemi enormi. E perché i nostri economisti e i nostri politici si confrontano con problemi enormi, ma non capiscono che la radice di tutti questi problemi è il patriarcato, che è anche la radice di tutte le forme di violenza”.
Sotto il cavallo di bronzo del “salotto di Torino” in piazza San Carlo, decine di cartelli e striscioni, fra cui uno con su scritto “NON RESTARE SOLA, CERCA IL TUO CERCHIO DI DONNE”.
Perché questo messaggio?
“La nostra associazione si fonda sulle pratiche di cerchio, facciamo cerchi di donne e anche cerchi misti con uomini e donne. – ha spiegato Morena Luciani – È importante capire che il modo in cui il patriarcato ha funzionato fino ad ora è stato quello di interrompere il legame forte che avevano le donne. Nelle società rigidamente dominate dal maschio le femmine vengono attivamente dissuase dallo stringere forti legami se non in quanto membri di famiglie e organizzazioni controllate dal maschio.
Abbiamo bisogno di stare insieme. Nelle società non patriarcali, che sono pacifiche e egualitarie, esistono forti legami tra maschi e femmine e grande socievolezza delle femmine tra di loro.
Se possiamo parlare in piazza oggi, se possiamo studiare, lavorare, fare arte, separarci, decidere se essere madri o no, lo dobbiamo alle madri femministe, ma il loro lavoro non si è concluso.
Abbiamo un’eredità da portare avanti, troppe cose non vanno nel nostro paese.
Pretendiamo che il governo si faccia carico di queste priorità sociali e politiche: che il governo prenda davvero in mano la questione del femminicidio in Italia, che i giudici riconoscano i femminicidi e le violenze sessuali e non diano sconti di pena con le scuse dell’infermità mentale o del tradimento.
Pretendiamo che i centri antiviolenza ritornino a essere attivi su tutti i territori nei quali sono stati chiusi.
Pretendiamo che siano allontanati tutti i medici obiettori dagli ospedali.
Ma esiste un’altra priorità, che è quella culturale ed è la più importante, la più complessa e difficile da affrontare, e che è il terreno sul quale la violenza ha messo le radici.
Bisogna lavorare sui modelli educativi, su un linguaggio non sessista, smettere di usare il neutro maschile, perché il maschile non è neutro.
E ancora, dobbiamo insegnare una storia non sessista.
Aprite i quaderni dei vostri figli e delle vostre figlie:
non imparano niente di ciò che le donne hanno fatto, dalla preistoria a oggi. Non sanno niente di quello che le donne hanno fatto in tutti questi millenni.
Non ci sono più scuse: il materiale c’è e va inserito nei libri scolastici.”
Durante l’esperienza “flashmob” centinaia di persone si sono scambiate fiori, silenzi, abbracci, parole, in una modalità di comunicazione non verbale guidata da Daniela Degan e da altre donne dell’associazione Laima. L’intento è stato quello di incontrare le altre persone su un piano emotivo profondo.
È stato distribuito il melograno, “un frutto che sanguina come le donne, perché il tabù mestruale ha significato per millenni il maggiore motivo di imbavagliamento del potere politico e spirituale delle donne. Eva non mangiò la mela, ma la mela granata, simbolo di conoscenza che, prima di lei, tenevano in mano molte dee dell’antichità. Il melograno permette a Persefone di stare nei due mondi ed è quindi, anche, una promessa di rinascita di cui noi e il mondo abbiamo bisogno”.
Danze, canti e tamburi hanno raccolto in cerchi e spirali tutte le persone in piazza in un’atmosfera magica e creativa. Poi, il dono delle vulve di pane. “In questa settimana abbiamo impastato il dolore delle donne e lo abbiamo trasformato in nuova materia. La vulva è il luogo dove la violenza maschile non raggiunge limiti, insieme al cuore, certo, ma fisicamente il dolore e la memoria lì si calcificano. Abbiamo deciso di creare delle vulve di pane in onore di tutte le donne ferite della terra, con un intento di guarigione”.
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