Attualità - La laicità ‘sospesa’ e l’equivoco del multiculturalismo che ha consentito l’esistenza di tribunali speciali. Uno stato nello stato nemico delle donne e dei diritti costituzionali dell’occidente
Stefania Friggeri Mercoledi, 03/08/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2016
L’imam della moschea milanese di viale Jenner, l’egiziano Abu Imad, intervistato da ‘La Repubblica’ nel 2008, ha detto che il suo compito non si limitava alla predicazione ma prevedeva anche di emettere sentenze su questioni inerenti il diritto familiare; ed ha aggiunto: “L’Italia non è il Regno Unito dove una legge dello Stato ha stabilito tribunali islamici …. che hanno valore di sentenza arbitrale e dunque un riconoscimento di legittimità …. Ma il fatto che in Italia non esista una legge, non elimina il bisogno della nostra comunità di vedere amministrata la legge di Dio, la sharia, innanzitutto per quello che riguarda il diritto di famiglia”. È vero, in tutta Europa, nel chiuso di alcune comunità islamiche, opera una giustizia parallela, uno “stato” entro lo Stato con veri e propri tribunali che applicano le norme di un codice religioso, la sharia. Il numero di queste corti è molto più ampio di quanto registrato poiché è sufficiente che tre uomini si autoproclamino “Consiglio della sharia” e possono esprimere un giudizio vincolante in tema di poligamia, ripudio, stupro, maltrattamenti, matrimoni forzati ecc.. Chi si rivolge a questi tribunali non accetta lo stato di diritto del paese ospitante: il principio di laicità, i valori di libertà ed uguaglianza (a partire dalla condizione femminile), i principi di inviolabilità dei diritti umani (diritti universali che sono alla base della democrazia) non appartengono al mondo di chi si sente “musulmano in Europa”, non “musulmano europeo”. I “Consigli della sharia” in Gran Bretagna hanno avuto, in via informale, il potere di legiferare su questioni familiari e controversie civili fino al 1996 quando una legge li ha riconosciuti come “tribunali d’arbitrato”; ma solo dopo anni l’opinione pubblica ha compreso che legalizzare le sentenze rispettose della sharia, che si ispira all’idea dell’inferiorità femminile, significava farsi complici di una grave ingiustizia verso le donne perché “i giudici della sharia non sono mai imparziali ma sempre orientati a favorire gli uomini. Anche i figli, in caso di affidamento, sono sempre affidati ai padri”(M.Zee). La condizione servile delle donne, inoltre, è aggravata dal controllo della famiglia, del clan, della comunità, ovvero dalla pressione del vicinato nei quartieri trasformati in ghetti, dove ad un alto tasso di omertà si accompagna, comprensibilmente, la stessa complicità delle vittime. Educate a loro volta da madri conniventi, le donne, vivendo in un ambiente culturale arcaico e chiuso, immerso tuttavia in una società secolarizzata ed aperta, soffrono di una tragica mancanza di equilibrio. Infatti, poiché nell’islam ortodossia (quello che si deve credere) ed ortoprassia (quello che si deve fare) coincidono, il musulmano, soprattutto se è donna, è ossessionato dalla liceità di qualsiasi scelta (l’islam disapprova questo? ma tollera quello?) e si rivolge all’imam per risolvere i quesiti (soprattutto in tema di sesso, abbigliamento e cibo) che nascono dal bisogno di vivere il proprio tempo senza però rinunciare alla propria matrice culturale. Chiediamoci in primo luogo come è potuto accadere che in alcune città europee le donne siano soggette a forme più o meno gravi di oppressione; ad esempio: a molte ragazze è vietata l’educazione fisica, vietata anche la bicicletta (potrebbero perdere la verginità), vietate le gite di classe (la sorveglianza è meno stretta), vietato lo sport (richiede un abbigliamento indecente), per tacere delle spose bambine, come Aisha, la preferita di Maometto. Gran parte della responsabilità di questa situazione penalizzante per le donne cade sull’idea male intesa di multiculturalismo della sinistra che, temendo l’accusa di xenofobia, voleva mostrarsi rispettosa della libertà religiosa e delle culture diverse. Il multiculturalismo è un dato da valorizzare, ma non certo mostrando indulgenza verso i matrimoni forzati, descrivendoli come parte di una cultura lontana che va compresa, quando invece sono veri e propri reati, espressione di un patriarcato di cui non dobbiamo farci complici. E invece la sociologa tedesca di origini turche Necla Kelek è rimasta vittima nel suo ambiente di ostracismo ed offese per aver descritto nel libro “La sposa straniera” la violenza di cui sono vittime le ragazze minorenni comprate nei villaggi dell’Anatolia per andare spose in Germania a giovanotti di origine turca. È vero: l’Occidente, ieri colonizzatore, oggi sfrutta, depreda e fa guerre contro i paesi musulmani (direttamente, o per procura, o coi droni per salvare la vita dei propri soldati - i civili indigeni sono danni collaterali, ha detto Obama); e tuttavia, senza dimenticare le colpe dell’imperialismo, dobbiamo essere orgogliosi dei nostri valori di progresso civile, senza colpevolizzarci al punto da abbracciare un concetto di multiculturalismo che tende a subordinare la difesa dei diritti umani, diritti universali, in favore di una comunità religiosa patriarcale e misogina. Infatti una cultura politica comune può essere fondata solo sui principi costituzionali, a partire dalla laicità dello Stato, dal superamento delle comunità religiose ed etniche che, chiudendo gli individui nella prigione di una rigida identità, non permettono la libertà di attraversare i confini, di creare combinazioni inedite. Un esempio positivo ci viene da Berlino dove è stata adottata una soluzione molto rispettosa dell’infanzia, sempre indifesa di fronte alla padronanza degli adulti: nelle scuole l’ora di religione (cattolica, evangelica e, se previsto, musulmana) è facoltativa mentre è obbligatoria l’ora di etica, un insegnamento attraverso il quale i giovani imparano i valori scritti nella Costituzione come l’importanza della separazione tra Stato e religione, il principio di eguaglianza fra i sessi, la libertà individuale ecc… I principi costituzionali, dunque, non la religione e l’etnia siano messi a fondamento in Italia della “casa comune”, che vuol dire: si ottiene la cittadinanza a certe condizioni, più importanti del numero di anni di residenza in un paese: conoscere i valori che hanno ispirato la Costituzione (facile l’obiezione: milioni di italiani perderebbero la cittadinanza se venissero interrogati sulla Costituzione; d’accordo, ma l’importante non è conoscere il testo, ma averlo interiorizzato e dunque rispettarlo come fanno in tanti), parlare la lingua (anche per fare uscire di casa le donne e liberarle dalla “servitù volontaria”), conoscere per sommi capi il diritto di famiglia italiano perché sia chiaro che in Italia certi costumi non sono tollerati. Una soluzione che non solo aiuterebbe le musulmane che sperano di uscire da un cultura misogina, ma permetterebbe anche alle italiane di evitare il rischio di perdere quanto hanno ottenuto dopo tante lotte, e tardi: solo nel 1975 è stata votata la legge di riforma del diritto di famiglia che, uniformando le norme ai principi costituzionali, ha modificato la precedente legge del 1942 fondata sulla subordinazione della moglie al marito. Il cui ascendente è forte anche oggi, vedi: in omaggio alla omofobia della gerarchia ecclesiastica col ddl Cirinnà si è tornati all’idea premoderna di famiglia, alla famiglia “naturale” formata da maschio e femmina, finalizzata alla riproduzione; solo le sentenze dei tribunali, denunciando le parti incostituzionali, ci hanno salvato dalla legge 40 scritta dai fondamentalisti cattolici; l’accanimento contro la 194 sta promuovendo il ritorno all’aborto clandestino. Dobbiamo dunque evitare un atteggiamento tollerante verso costumi arcaici giustificati da argomenti religiosi, e ricordare che i diritti conquistati vanno sempre difesi perché la storia è volubile e il clima sociale variabile.
Lascia un Commento