Domenica, 07/12/2014 - È la numero due dell’Iran. Masoumeh Ebtekar vice Presidente della Repubblica islamica, in questi giorni in Italia per un ciclo di conferenze, non si sottrae alle domande.
Pallida e austera glissa con eleganza sui nodi cruciali della politica, diplomatica quando affronta le questioni in agenda: dalle problematiche energetiche di gas e petrolio, all’accordo di Shangai, dal nucleare per usi civili, ai diritti umani.
Rassicurante sul nuovo corso riformista post Ahmadinejad, inaugurato dal Presidente Hassan Rouhani - seguace del moderato Katamì - si dichiara favorevole al negoziato più che all’approccio militare, e all’embargo oppone lo sviluppo delle biotecnologie: terreno di ricerca e appeal per investitori esteri.
Per l’Expo di Milano conferma la partecipazione del suo paese. Sulla cooperazione tra Iran e USA contro lo Stato Islamico: “bisogna approfondire le cause vere del terrorismo”, ma soprattutto sottolinea che “lo Stato Islamico non ha niente a che vedere con la religione islamica e i terroristi non devono essere definiti Stato Islamico perché l’Islam è un’altra cosa”.
Alla domanda sull’impiccagione di Reyhaneh Jabbari - la ragazza condannata a morte lo scorso 25 ottobre per aver ucciso un uomo che tentava di stuprarla, ammette: “è una questione molto complicata. Soprattutto da un punto di vista giuridico. La famiglia della vittima ha rifiutato il perdono in accordo con la Legge islamica. I media ne hanno parlato molto. Ma è risaputo che in Iran esiste la pena di morte come in tanti paesi occidentali”. Masoumeh Ebtekar risponde con cortesia alle domande più spinose, difficile pretendere di più dalla seconda carica dello Stato.
E ancor più difficile penetrare razionalmente i meccanismi del “Qyssass”, la legge penale islamica che promana direttamente dal Corano. 80 articoli che disciplinano la pena cui il reo viene condannato e che deve essere uguale al crimine commesso. Per la giovane Reyhaneh poteva applicarsi il “Dyyat”, ovvero “il prezzo del sangue”, “ma i parenti della vittima non hanno acconsentito al perdono” dice la vice Presidente. In effetti, per la Shari’a - la Legge islamica - il “Dyyat” è più che un risarcimento economico alla persona. È un istituto che mira a riequilibrare una perdita umana all’interno di una società in cui è solo l’uomo ad avere l’obbligo di provvedere al sostentamento familiare.
Reyhaneh Jabbari veste con il chador, il manto nero che copre interamente il corpo. Ha il viso scoperto e l’aspetto remissivo che l’Islam attribuisce alle donne. L’impressione è che sia qui a Roma per inaugurare la diplomazia del sorriso, 3.0. Nouvelle vague della potente repubblica islamica che in questo momento in medio Oriente si sta giocando la partita più importante.
Sullo scacchiere Siria-Iraq l’Iran contende alle petromonarchie e alla Turchia l’egemonia regionale. Avamposto di interessi a più livelli di pericolosità lo stato turco cerca di contendere la leadership petrolifera e i territori strategici controllati dagli jiadisti dello Stato Islamico, creatura occidentale sovvenzionata dalle Monarchie arabe e nata grazie alla protezione e ai finanziamenti dei servizi segreti di mezzo mondo. Su tutti CIA e MIT, l’intelligence turca alle dipendenze dell’ex Primo Ministro Erdogan, oggi Presidente della Repubblica e asso della bilancia capace di prendere le distanze sia da Washington che dall’Europa, come dimostra la mancata apertura delle basi Nato in territorio turco chieste nei mesi scorsi dalla coalizione.
Dall’altro lato dello scacchiere l’Iran di Hassan Rouhani, “alleato” in-frequentabile ma appetibile per Washington che, con una unica manovra, potrebbe mettere ko il nemico di sempre. Una eventuale alleanza potrebbe infatti sfiancare economicamente Tehran impelagandola in un conflitto costoso e sempre più difficile da vincere.
Lascia un Commento