Mercoledi, 03/10/2018 - “Come ogni evoluzione tecnologica, la computer graphics ha sconvolto l’economia delle immagini sostituendo un medium a un altro. Il passaggio dall’analogico al digitale ha profondamente turbato il modello ontologico dell’immagine fotografica – alcuni vi hanno visto una morte del cinema, prima che i cineasti stessi si siano messi a pensare i loro film a partire delle possibilità del digitale – ma ha anche liberato delle potenze plastiche fin ad ora inaccessibili.” ‒ Luc Vancheri
Pubblicato nel 2007 dalla casa editrice francese Armand Colin, “Cinema e pittura” è stato diffuso in Italia il 30 giugno 2018 con la casa editrice Negretto Editore per la collana editoriale Studi cinematografici, diretta dal prof. Alberto Scandola, docente di Storia e Critica del Cinema presso l’Università di Verona.
L’autore, Luc Vancheri, è docente di Studi Cinematografici nel dipartimento di Cinema e Studi Audiovisual presso l’Università Lumière di Lione.
Il saggio, con progetto grafico di Ornella Ambrosio, si presenta in copertina con un fotogramma del film del grande regista francese Jean-Luc Godard “Passion” (1982) che presagisce la posizione avanguardistica del suo contenuto.
Suddiviso in quattro capitoli, “Cinema e Pittura” è composto di tre parti fondamentali dedicate alla questione dell’estetica, della poetica e di analisi ‒ plasmate dal confronto fra l’immagine e l’arte ‒ che aprono lo sguardo verso la letteratura, lo studio teorico e l’analisi filmica.
“Dando alla metafisica il senso stesso della sua storia e quasi l’immagine del suo ribaltamento, il nichilismo di Nietzsche ha lasciato aperta all’artista (l’artista-filosofo chiamato ad essere il medico della civiltà) la possibilità di essere nel pensiero così come nell’opera, anche se Heidegger si sente ancora troppo debole per assumere «che davvero un dire poetico possa essere anche l’opera di un pensiero». Poiché Nietzsche considera l’arte «il grande stimolante della vita» (Af. 851, 1888) e il valore supremo, di questo privilegio costante dell’artista rispetto alla vita permane l’affermazione di un regime del soggetto e dell’arte che non può ridursi alle sole regole e maniere, e quasi lo sviluppo di un’affermazione vitale dell’opera, vale a dire che essa è effettivamente connessa agli stati fisici, agli stati creatori dell’artista.” ‒ “Cinema e Pittura”
Il Professor Luc Vancheri si è mostrato molto disponibile nel rispondere ad alcune domande di presentazione dei concetti esposti sul saggio “Cinema e Pittura”. L’intervista è stata redatta in francese con traduzione in lingua italiana di Francesca Capasso.
A.M.: Professor Vancheri sono lieta di presentarla ai lettori italiani con questa intervista. Come prima domanda mi piacerebbe che ci raccontasse di com’è nata la passione per il cinema, se da ragazzo o da adulto.
Luc Vancheri: Come molte persone della mia generazione vengo dalla cinefilia, cioè un’epoca in cui si scopre il cinema nelle cinemateche e nei cinema d’essai. Ad ogni modo, quando iniziai a interessarmi al cinema, alla fine degli anni ’70, la tradizione critica dei Cahiers du Cinéma e di Positif non è più sola, ma è accompagnata ormai da una teorizzazione sul cinema influenzata dalle scienze umane. Dal lato della critica, sono stato segnato dal pensiero di André Bazin e della nuova guardia dei Cahiers che avrebbe poi formato la Nouvelle Vague (Godard e Truffaut che sono stati dei critici estremamente brillanti, ma anche Rohmer e Rivette). Tuttavia, sono stato particolarmente sensibile al momento politico dei Cahiers dopo il maggio sessantotto e alla radicalità teorica di una critica militante. Alla fine degli anni ‘70, quando Daney e Toubiana operano quello che si chiama il ritorno al film, comincio a misurare la complessità del cinema come fatto estetico e sociale. Sotto il profilo teorico, se in Francia, alla fine degli anni ’60, la letteratura accademica sul cinema resta ancora influenzata dalle opere-somma di Sadoul e Mitry, le cose cambiano all’inizio degli anni ‘70 con i lavori ispirati dallo strutturalismo, dalla semiologia e dalla psicanalisi. Vengo così influenzato da Christian Metz e i suoi lavori sul linguaggio cinematografico (Il significante immaginario, 1977) che diedero un impulso essenziale al pensiero teorico, ma anche dai primi libri di Pierre Sorlin (Sociologia del Cinema, 1977), da Raymond Bellour sul cinema americano (1980), Jean-Louis Schefer sulla condizione dello spettatore (L’uomo comune del cinema, 1980) e da Pascal Bonizer sulla forma filmica (Il campo cieco, 1982). Inoltre, alla fine degli anni ’70, ha luogo il rinnovamento della storia cinematografica (Congresso di Brighton, 1978) che fa posto al “cinema dei primi tempi”. Vari fenomeni cambiano il mio rapporto col cinema, che da cinefilia diventa ricerca universitaria. La creazione del primo dipartimento di studi cinematografici in Francia alla Sorbonne Nouvelle nel 1969 segna un cambiamento decisivo nella maniera in cui il cinema sarà ormai pensato. Come è stato già osservato da Francesco Casetti (Teoria del Cinema, 1993), il cinema è ormai oggetto di un triplo investimento. È accettato come fatto di cultura divenuto finalmente legittimo; è sottoposto ad una specializzazione del discorso che subisce l’influenza delle scienze umane; e, infine, il fenomeno si diffonde su scala internazionale. Paradossalmente, non sono mai stato tentato dalla critica cinematografica, poiché fin da subito attirato dal versante teorico. Questo forse è dovuto alla mia formazione universitaria dove si affiancano filosofia, storia dell’arte e letteratura moderna. I miei primi testi sono quindi fin da subito analitici e teorici. Il mio primo saggio sul cinema Figurazione dell’inumano (1992), edito dal Presses Universitaires Vincennes nella collezione Hors Cadre diretta da Marie-Claire Ropars, è dedicato alle possibilità plastiche della figurazione umana nel cinema. Non mi sono mai allontanato da questo approccio ragionato al cinema: il mio ultimo libro, edito presso le Presses Universitaires de Rennes in questo mese di agosto, Le cinéma ou le dernier des arts, presenta un panorama storico dedicato alla maniera in cui il significante cinema è stato risemantizzato dalla teoria nel corso della sua breve storia. È chiaro come io abbia conservato lo stesso gusto per la teoria.
A.M.: La copertina del saggio “Cinema e Pittura” omaggia il film del 1982 “Passion” di uno dei più grandi registi francesi Jean-Luc Godard. Film che ritroviamo esaminato nel quarto capitolo con il sottotitolo: “l’elogio dei classici”. Possiamo affermare che ancora oggi Godard non è stato superato in quanto a ricerca estetica in connessione con la settima arte?
Luc Vancheri: Jean-Luc Godard è innanzi tutto un modello e un mito. La sua opera, che è al tempo stesso critica, teorica e filmica, costituisce, per portata storica, per profondità estetica ed esistenziale, per forza audiovisiva (È uno dei rari cineasti ad aver fatto del rapporto tra questi il punto di partenza di una teoria politica del cinema durante il periodo del gruppo Dziga Vertov) e per potenza teorica (penso alle Histoire(s) du Cinéma) un’opera totale senza pari. Con Eisenstein, Vertov, Welles, Pasolini, Tarkovski, appartiene a quella cerchia di rari artisti che hanno pensato il cinema come un fatto di civiltà al quale hanno attribuito un messianismo estetico e politico, cosa che non ha comunque evitato un profondo pessimismo, come per Pasolini alla fine della sua vita. I film di Godard hanno, del resto, raccontato i momenti essenziale della seconda metà del XX secolo, sono stati sintomi delle metamorfosi culturali e politiche che hanno scandito questo pezzo di storia. Prendiamo, ad esempio, Le Petit Soldat sulla guerra di Algeria, o La Chinoise, che anticipa la svolta rivoluzionaria del Maggio ’68, o Je vous salue, Marie, che riprende la problematica religiosa della società occidentale, etc. Tuttavia, il suo rapporto con l’arte è largamente preparato dal classicismo degli anni da critico ai Cahiers – lo si è dimenticato, ma i primi riferimenti sono a Poussin, Crébillon, e Madame Lafayette, come si è dimenticato che a quell’epoca Godard non esitava a definire anticinematografica la modernità di Bresson e Welles. Solamente più tardi farà posto alla pittura di Goya, Manet e Delacroix, che non cesseranno più di abitare la sua opera. Ma anche in questo caso i riferimenti teorici sono in fondo piuttosto classici. Jean-Paul Belmondo legge Elie Faure in Pierrot le Fou. Jacques Aumont ha del resto giustamente osservato che con Histoire(s) du cinéma, realizzato tra il 1988 a 1998, Godard diviene egli stesso l’Elie Faure del cinema. Il solo vero cambiamento consiste nel passaggio all’installazione e all’esposizione museale con Voyages en Utopie (2006) a lui commissionata da Domenique Païni per il Centre Pompidou. Agnès Varda, Claire Denis, Apichtpong Weerasethakul, Tsai Ming Liang, David Lynch, Abbas Kiarostami approdano tutti all’arte contemporanea e presentano delle installazioni in spazi museali. Vediamo allora come Godard sia stato un osservatore estremamente lucido: allo stesso tempo una Cassandra di un secolo traumatizzato dalle sue guerre e un infaticabile profeta della potenza redentrice del cinema.
A.M.: L’introduzione intitolata “L’arte alla prova del cinema” cita ampiamente “Blow Up” di Michelangelo Antonioni. Se ai primordi del cinema la contaminazione tra cinema italiano e cinema francese era estesa e proficua, come vede la situazione odierna?
Luc Vancheri: Blow up (1966) è un film paradossale, realizzato e prodotto da due italiani, Michelangelo Antonioni e Carlo Ponti, che è riuscito a imporre l’immagine della Swinging London degli anni 1960. Il film segna del resto una svolta nella carriera del regista che girerà quello successivo negli Stati Uniti (Zabriskie Point, 1970). Il modernismo colto di Antonioni incrocia la modernità della pop culture. Non dimentichiamo che fu lo studio di John Cowan, al 39 Prince’s Place, che servì da appartamento a Thomas, il personaggio interpretato da David Hemmings. Non dimentichiamo nemmeno il suo arredamento: delle poltrone di John Wright (Dodo Design), delle stampe di John Cowan, una tela di Alan Davie, Joy Joy Stick, un'altra di Ian Stephenson, Still Life Abstraction (1957). Antonioni non si accontenta semplicemente di ispirarsi alle fotografie di moda di David Bailey, Brian Duffy, Terence Donovan e David Montgomery per la seduta di shooting di Thomas; ha anche intuito che il cinema poteva essere l’arte che avrebbe documentato la rivoluzione culturale e artistica degli anni ’60. È precisamente quello che descrive Antonioni in un’intervista al giornale Playboy nel novembre del 1967, dove dichiara “tutto quello che so è che siamo schiacciati da un’accozzaglia di cose vecchie e logore – abitudini, costumi, attitudini radicate, già morte e passate. La forza dei giovani inglese in Blow Up risiede nella loro capacità di gettare a mare tutto ciò” (A candid conversation with Italy’s master of cinematic anomie). Quanto alle prime fotografie che Thomas porta al suo editore all’inizio del film, sono delle stampe di Don McCullin, Man about Time, che aveva realizzato un reportage fotografico sui poveri dell’East London nel 1961. Blow up non si è solamente imposto come l’emblema chic della pop culture (le modelle posano con vestiti di Courrège e Mary Quant) o come una reinterpretazione teorica della pop art; è riuscito a legare due fenomeni estetici differenti. Uno ha a che vedere con il vecchio conflitto fenomenologico tra fotografia e realtà, qui riletto a partire dai saggi sull’astrazione in pittura (a questo titolo Still Life Abstraction è proprio il doppione astratto della fotografia ingrandita nei dettagli di Thomas). L’altro verte sulla tensione etica che oppone i difensori dell’art pour l’art e i sostenitori di un’arte sociale e politica (si tratta di una ripresa della querelle estetica nata in Francia verso il 1830). Ciò che è interessante in tutto questo è il fatto che sia un erede del neorealismo a riprendere i fili di questa svolta estetica, fenomeno ben lontano dall’essere isolato visto che il giallo che nasce nella stessa epoca in Italia è inseparabile da una riappropriazione della pittura degli anni ’60. Mario Bava e Dario Argento non hanno semplicemente inventato un nuovo genere cinematografico, ma hanno profondamente rinnovato i rapporti tra pittura e cinema. Pauline Mari ha lasciato su questa questione un saggio importante alle Presses Universitaires de Rennes (Le Voyeur et l’Halluciné, 2018). È evidente che stiamo parlando di un film-manifesto che ha sintetizzato la sua epoca, un po’ come L’inumano di Marcel L’Herbier per gli anni venti, o Passione di Godard per gli anni ’80, o ancora Visage di Tsai Ming Liang per gli anni 2000. Questi film costituiscono un evento non soltanto perché sono riusciti a pensare visualmente la loro epoca, ma anche perché hanno identificato i problemi estetici che questa si pone.
A.M.: Sotto quali aspetti gli studenti che hanno seguito i suoi corsi presso l’Università di Lyon 2 hanno ispirato “Cinema e Pittura”?
Luc Vancheri: Questo libro che le Edizioni Negretto hanno appena tradotto è assai vecchio. L’ho scritto dieci anni fa e posso dire che costituisce la prima fase di un approccio teorico che ho poi portato avanti e arricchito con un approccio figurale e iconologico dell’immagine tipico dei miei ultimi libri. Se Les Pensées figurales de l’image (2011, Armand Colin) è un’esplorazione teorica dell’apporto freudiano a una nuova analisi dell’immagine che è ormai accettata nel campo degli studi cinematografici, Psycho. La lezione di iconologia di Alfred Hitchcock (Vrin, 2013) e La Grande Illusione. Il museo immaginario di Jean Renoir (Presses Universitaire du Septentrion, 2015) sono due studi monografici condotti sulle orme di Aby Warburg, autore che Carlo Ginzburg ha diffuso in Italia ben prima che lo scoprissimo in Francia (Miti, Emblemi e Spie, 1986). Le mie ultime opere hanno cercato, quindi, di verificare negli studi cinematografici l’euristica di nozioni elaborate nel campo della psicanalisi e della storia dell’arte. Mi sono allora interessato alla figurabilità freudiana così come alle nozioni warburghiane di pathosformel e nachleben perché esse ci permettono di ripensare la relazione cinema/pittura considerando la pittura come un archivio visuale delle forme, un repertorio di motivi, di gesti e di figure delle espressioni umane che il cinema ha reinvestito e di cui ci importa riprendere la storia. Per precisare un po’meglio il senso di questa ricerca, posso rapidamente ritornare su Psycho d’Alfred Hitchcock. È un film saturato di interpretazioni al quale sembra difficile oggi aggiungere qualcosa. Tuttavia, quando ho cominciato a interessarmene, fui colpito dal fatto che il quadro che Norman Bates solleva per spiare Marion Crane non fosse mai stato identificato. Non soltanto non si sapeva ancora chi aveva dipinto questa variazione di Susanna e i vecchi, ma soprattutto non ci si era mai domandati cosa la gestualità di Susanna poteva dirci su quella di Marion Crane durante il suo assassinio nella la doccia. I due gesti non erano mai stati avvicinati, ma la soluzione di messa in scena adottata da Hitchcock è una reinterpretazione calcolata della scenografia del quadro di Willem van Mieris che dipinse la sua Susanna nel 1731. Ciò che apparentemente sembra essere solo un dettaglio di un’immagine, cioè l’artificio di un dispositivo voyeurista, è in definitiva la chiave ermeneutica di un film che si iscrive in una lunga tradizione teologica, liturgica, letteraria e iconografica. Questa tradizione rivisita il motivo di una Susanna tratta dal libro di Daniele, allo stesso tempo santa, orante e figura della Chiesa. Ma se riprendiamo la celebre scena dell’assassinio di Marion Crane sotto la doccia, ci si rende conto che la sua maniera di lottare contro l’aggressore, Norman Bates, è estremamente vicina a quella che l’iconografia di Susanna ha largamente popolarizzato. Marion si dibatte contro Norman Bates come Suzanne si difendeva dai due vecchi. Il legame tra Susanna e Marion è dunque proprio quella formula di pathos che ci è mostrata dal quadro posseduto da Norman. Alfred Hitchcock fa di Susanna il principio di una lezione morale che ci informa su Marion, che è, per dirla tutta, una cristiana alla quale la grazia è mancata. Possiamo osservare allora, come, a partire da un solo quadro, l’iconografia di Susanna e l’ermeneutica biblica sono sopravvissute nel film di Alfred Hitchcock, come queste si sono legate insieme, cosicché questa intensa retorica visuale ha giocato un ruolo in una lettura dell’America tra modernità sociale e arcaismo culturale. Lo studio delle relazioni tra cinema e pittura è entrato oggi in una fase estremamente ricca di lavori originali e eruditi che lasciano intravedere un orizzonte di ricerca appassionante. Sono felice di constatare che i nostri studenti abbiano scelto di dedicarvisi e che ci siano sempre più tesi su questo tema.
A.M.: La proiezione delle immagini. Possiamo affermare che la connessione e la contaminazione descritta nel suo libro parta dalla considerazione secondo la quale, sin dall’uomo primitivo, proiettare immagini (nelle caverne per esempio) è un fatto necessario ed indispensabile per l’essere umano per autodefinire la propria esistenza?
Luc Vancheri: Si ha l’abitudine di descrivere l’invenzione tecnica del cinema ricordando una sequenza storica che comincia grosso modo con il Taumatropio del dottor Fitton (1826) prima di trovare la soluzione con il cinematografo Lumière (1895), passando per il Fenachitiscopio di Plateau (1832), lo Zootropio di Horner (1834), il teatro ottico di Emile Reynaud (1888) e il Kinetoscopio di Edison (1981). Ma il procedimento di Edison è stato rapidamente differenziato da quello di Lumière facendo valere la proiezione cinematografica come la condizione essenziale del dispositivo. A partire da questo, ci si è interrogati sul legame tra proiezione e immagine, poiché si tratta di qualcosa che ritroviamo già al Rinascimento con la costruzione di una rappresentazione prospettica. Ci si è persino domandati se l’allegoria della caverna di Platone descritta nel Libro VII della Repubblica non sia stato il primo riferimento cinematografico. Ma una tale rilettura della storia del cinema si fonda su un malinteso. Non bisogna infatti confondere quello che chiamiamo storia del cinema con la storia degli elementi che costituiscono il suo dispositivo. Possiamo quindi scrivere due storie distinte se ci si interessa alla filiazione scientifica che adegua l’immagine cinematografica alle leggi dell’ottica e della chimica o se si ritraccia la genealogia del pensiero magico che giudica l’immagine come illusione, spettro o fantasma. La lanterna magica segna questa esitazione tra un ordine della ragione che deve tutto alla tecnica e un disordine dei sensi abbandonati a un’incertezza fenomenologica. Quando si accetta l’allegoria della caverna come “origine possibile” del cinema, ci si dimentica che per Platone l’immagine è in primo luogo sottomessa a un giudizio di verità. È sotto la condizione di verità e di ciò che la filosofia può dirne che l’immagine e la proiezione si ritrovano legati. Il problema non è quello di Edison e dei fratelli Lumière. Ciò che conta è porsi la domanda di che cosa si fa la storia quando si attribuiscono al cinema delle origini che superano largamente il momento della sua invenzione tecnica.
A.M.: Se l’indagine armonica e la connessione con la pittura è un fattore determinante per i film descritti nel suo libro, come valuta l’avvento della computer graphics?
Luc Vancheri: Come ogni evoluzione tecnologica, la computer graphics ha sconvolto l’economia delle immagini sostituendo un medium a un altro. Il passaggio dall’analogico al digitale ha profondamente turbato il modello ontologico dell’immagine fotografica – alcuni vi hanno visto una morte del cinema, prima che i cineasti stessi si siano messi a pensare i loro film a partire delle possibilità del digitale – ma ha anche liberato delle potenze plastiche fin ad ora inaccessibili. A parità di condizioni, è ciò che aveva compreso Eisenstein quando si interessava ai film d’animazione e alle produzioni Disney a partire dall’idea di plasmaticità che dà via libera a un’autonomia figurativa delle forme, comprendendo come il film d’animazione possa offrire delle risorse per riflettere sulle potenze formali del cinema. Ritroviamo una tale volontà di esplorazione figurativa presso dei cineasti assai diversi come Jean-François Laguionie (Le Tableau, 2011) o Wes Anderson (L’isola dei cani, 2018). Questa evoluzione tecnologica ci dice che la tecnica è necessariamente il luogo di un pensiero estetico, cosa che sapevano bene i primi teorici italiani della prospettiva. Con il De pictura (1435), Leon Battista Alberti non solamente scrive un trattato di pittura per i pittori, ma rinnova la retorica di Cicerone attraverso le matematiche e introduce la pittura in un’era nuova, come osservava C. Dionisotti che riconosceva in Alberti “l’impronta dell’uomo nuovo, dell’artista e dell’umanista laico, signore del suo mondo, capace di rappresentare, giudicare e modificare la realtà in ogni suo aspetto, anche umile” (Chierici e laici, 1977).
A.M.: La casa editrice Negretto Editore ha recentemente pubblicato in traduzione “Cinema e Pittura”. Ritiene che il saggio possa aver mercato anche in Italia?
Luc Vancheri: Lo spero. E ad essere sincero, lo credo. L’Italia è stata il crogiolo della nostra cultura dell’immagine. Sono dunque molto felice di poter essere letto in italiano. Ma il mio libro non è che uno dei tanti saggi dedicati alle relazioni tra cinema e pittura, e mi rallegro che queste siano ancora oggetto di lavori monografici. Penso ai libri di Moscariello Angelo, Pier Marco De Santi, Silva Marina Nironi o Mathias Balbi. Penso anche ai miei colleghi in Francia che proseguono questa riflessione, a Jacques Aumont e alla sua opera essenziale che ha aperto la via a numerose ricerche – L’occhio interminabile –, a Jean-Michel Durafour che prosegue un lavoro originale su ciò che definisce l’econologia (Cinema e cristalli. Trattato d’econologia, 2018), e ai miei dottorandi – Francesca Capasso, Sébastien David, Aurel Rotival o Pascale Deloche che ha appena terminato una formidabile tesi sul processo giudiziario sul film La Ricotta di P.P.Pasolini – che prolungano questa riflessione sull’immagine allargandola al cinema politico. La letteratura accademica sul cinema è molto cambiata in questi ultimi vent’anni. Si è notevolmente arricchita ed ha raggiunto un livello scientifico molto alto. È una bella novità per il cinema e per gli studi cinematografici in generale.
A.M.: Attualmente sta lavorando ad una nuova pubblicazione? Può anticipare qualcosa?
Luc Vancheri: Nel mio ultimo libro Il cinema o l’ultima delle arti (2018), mi sono interessato alle variazioni storiche del significante “cinema”, cosa che mi ha portato a rivedere la nostra maniera di pensare la storia del cinema sottolineando tre momenti strutturali che implicano tre concezioni del cinema molto diverse. Distinguendo la fase Lumière, la fase Canudo e la fase Youngblood, ho cercato di mostrare che il cinema, in ciascuno dei suoi momenti, è esistito secondo rapporti diversi: rapporti sociali, culturali, economici, politici che disegnano ogni volta una condizione del cinema irriducibile. La tesi che difendo è questa: riconoscere il cinema come il settimo nella sequenza delle arti, è accettare l’idea che l’arte sia la condizione storica del cinema. Ma dire ciò significa, da un lato, considerare che la cinematografia-attrazione descritta dalla scuola di Montréal designa un’alternativa al pensiero del cinematografo, dall’altro, che l’expanded cinema esiste senza dovere niente all’idea di arte come ciò che assicura la regolazione sociale del dispositivo cinematografico e propone un’altra alternativa, direttamente sottomessa al regime contemporaneo dell’arte. Il malinteso che oppone i sostenitori del dispositivo storico ai difensori del cinema allargato si basa precisamente su questo nodo: se si modifica l’idea di arte che regola il funzionamento dell’industria e delle istituzioni cinematografiche, è l’idea stessa di cinema che cambia. E questo genera il cinema di installazione dei musei e delle biennali di arte contemporanea. Ma questo tipo di cinema è ancora contestato, anche se alcuni cineasti rivendicano ciò. Mi sembra dunque importante ritornare sulla maniera di pensare il cinema e di farne la storia. Quanto al mio lavoro più recente, ho appena finito il manoscritto. Si tratta di uno studio monografico dedicato a un film di Philippe Faucon, Fatima (2015). Ho cercato di dimostrare che il film non va ridotto semplicemente al suo tema sociale, l’immigrazione e la sofferenza sociale dei suoi personaggi, perché dispiega tutto un insieme di situazioni estetiche che funzionano come occasioni per riaffermare i legami che vanno dal cinema alla filosofia, alla storia, alla politica e alla pittura. Ho dunque tentato, a partire dalla polemica scatenatesi quando il film ha ricevuto il César (2016), di descrivere la maniera in cui il cinema si introduce nella storia del pensiero, ne modifica le coordinate e le forme, ne riprende problematiche più vecchie per rileggere quelle di cui è contemporaneo. Così mi sono deciso a analizzare alcune sequenze del film ricorrendo ai frammenti filosofici di Eraclito, al De lingua latina di Varrone, al testo di Benjamin su Nicolas Leskov o ancora al Was ist Aufklarung? di Kant. Dovrebbe essere pubblicato nella primavera 2019.
A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Luc Vancheri: “Bisogna immaginare Saskia morente e lui nel suo atelier, appostato su delle scale, cambiando la composizione de La ronda di Notte. Se crede in Dio? Non quando dipinge.”
“Ciò che è rimasto di un Rembrandt strappato in piccoli quadratini regolari, e buttato al cesso”.
Jean Genet, Rembrandt, Paris, Gallimard, 1995, p.77
Traduzione in lingua italiana a cura di Francesca Capasso (PhD student at Lyon 2 University. Her thesis focuses on the relationship between cinema and messianism)
Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore
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Nella fonte dell’articolo troverete l’intervista in inglese e francese.
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