Parlare con gli uomini violenti: il progetto di contrasto alla violenza sessista sperimentato a Roma da Ponte Donne e da Il Cortile. Intervista a Carla Centioni
Lunedi, 07/01/2019 - Parlare con gli uomini che hanno agito la violenza contro le donne e che sono in carcere per reati, spesso gravi, legati a tali azioni. E' questo l'asse su cui si è sviluppato il progetto Uomini Liberi dalla Violenza che l'associazione Ponte Donna e Il Cortile hanno ideato e realizzato presso gli Istituti di pena romani: Rebibbia e Regina Coeli. Un parcorso piuttosto solido che va avanti da tre anni e che continua, sotto forma di volontariato, ben oltre la scadenza del progetto iniziale nella convinzione dell'utilità e dell'importanza della parola e dello scambio, validi strumenti di analisi culturale e, quindi, di contrasto alla violenza sessista. Intervista a Carla Centioni, animatrice del progetto e presidente di Ponte Donna.
Ci spieghi come sei arrivata a lavorare con gli uomini maltrattanti? L’idea di lavorare con gli uomini autori di violenza nasce da molto lontano prima della Ratifica della Convenzione di Istambul da parte dell’Italia (2013) che prevede il lavoro con gli autori di violenza. Quando abbiamo considerato questa ipotesi era il 2010 e io ero responsabile del Centro La Ginestra, che gestivo insieme ad alcune associazione della Casa Internazionale delle donne. Con una di queste associazione, Il Cortile, abbiamo iniziato a fare dei ragionamenti partendo da alcune criticità nella costruzione di percorsi di uscita dalla violenza. Uno di questi riguardava i Decreti che emettevano i Tribunali dove, nonostante la denuncia-querela della donna, in pochi casi si disponeva di incontri protetti padre- figli/e, anzi nella maggior parte gli incontri erano liberi. Questo per dire che nonostante le/i bambine/i erano testimoni della violenza subita dalla madre, continuavano a vedere il padre maltrattante, senza alcuna restrizione. Accompagnando i minori agli incontri protetti ci siamo rese conto dell’inadeguatezza di questi padri nelle loro funzioni genitoriali e abbiamo capito che c’era un vuoto che andava colmato oltre a quello legislativo, un vuoto che ancora oggi deve essere regolamentato. Pensiamo infatti che sia indispensabile in quei casi in cui c’è maltrattamento che prima che vengano disposti incontri liberi, ci sia un invito da parte della magistratura o dei servizi preposti a fare un percorso affinché questi padri si interroghino sul danno arrecato ai figli/e.
Possiamo dire un lavoro in contrasto con i dettami dei centriantiviolenza? All’epoca direi di si, oggi non più. In quegli anni -nel 2010- abbiamo trovato comprensione, direi lungimiranza da parte dell’Istituzione Provinciale Solidea che ci ha appoggiate. Abbiamo iniziato ad incontrare gli uomini fuori dal Centro, nella sede del Il Cortile presso la Casa Internazionale di Roma. Inizialmente gli invii sono arrivati da parte di alcuni Magistrati illuminati che invitavano alcuni uomini a rivolgersi a noi, alcuni di loro erano agli arresti domiciliari altri a piede libero. Pochi sono arrivati di loro volontà e pochi hanno fatto un percorso completo, spesso chiamavano al telefono ma poi per i più svariati motivi non venivano agli appuntamenti.
Come avete iniziato a lavorare in carcere? Mi verrebbe da dire che ‘se Maometto non va alla montagna'…. Negli anni successivi quello che inizialmente era un ragionamento sperimentale ha preso forza e ci siamo convinte che per contrastare la violenza in tutte le sue forme bisognava ascoltare anche gli uomini e avere altre angolazioni sul tema. Intervenire in modo efficace al contrasto alla recidiva significa comprendere concretamente cosa bisogna fare. Sappiamo, proprio perché lavoriamo da tanti anni su questa tematica, che se i progetti si costruiscono dentro le stanze delle Istituzioni può accadere che siano funzionali solo alle stesse Istituzioni, ma inutili nell’obiettivo che si prefiggono, cioè la ripetizione del reato. Voglio dire con questo che oggi, dopo tre anni che lavoriamo in carcere, le nostre idee iniziali e i nostri obiettivi si sono arricchiti grazie all’ascolto di chi questi reati li ha commessi.
Ci fai capire meglio cosa intendi? Provo ad essere chiara tenendo conto dello spazio ridotto in uno scritto e consapevole che è un ragionamento che dobbiamo fare a più voci. Per voci intendo non solo chi già si occupa di uomini maltrattanti, dove lo scambio, anche nei diversi approcci di intervento è stato avviato. Per più voci intendo un confronto con i centri antiviolenza che leggono negli interventi con gli autori, uno scivolone, una deriva che guarda alla mediazione tra maltrattante e la donna che ha subito il reato. Sciolgo subito l’equivoco dicendo che è lontana da ogni nostra logica, non è questo l’interesse dell’intervento che facciamo.
Allora parlaci del vostro intervento in carcere, come fa una come te che ha ascoltato centinaia forse migliaia di donne maltrattate a lavorare ora con i maltrattanti?
Questa domanda mi fa sorridere, sicuramente qualche anno fa non ci sarei riuscita. Oggi con qualche ruga in più e la solidità di un ragionamento sviluppato insieme in équipe con i soggetti partner - Ponte Donna e Il Cortile - mi sento determinata ad affrontare ogni confronto dialettico.
Abbiamo iniziato con una plenaria a Regina Coeli. Quando siamo entrate la prima volta era estate, l’incontro si è svolto all’aria nel cortile del carcere, a Rebibbia ci è stata data la Cappella della sezione. Abbiamo da subito iniziato con un rapporto limpido e chiaro, soffermandoci su chi siamo, - lavoriamo da tanti anni nei centri antiviolenza - abbiamo spiegato da dove e perché è nato il nostro interesse a lavorare con loro, cioè tutto quello che ho appena spiegato, anche più dettagliatamente.
Erano in tanti, circa 70/80 detenuti solo a Rebibbia pochi meno a Regina Coeli,;alcuni hanno fatto domande, altri si vedeva che erano li per curiosare, altri perché non potevano probabilmente dire di no al Direttore.
Abbiamo iniziato ad andare tutte le settima da tre anni, non abbiamo saltato neanche agosto.
Avete delle tecniche o teorie di riferimento? Quando entriamo in Carcere insieme agli effetti personali che si devono lasciare, lasciamo fuori i nostri pregiudizi, il nostro immaginario, portiamo con noi solo la nostra etica. andiamo ad incontrare soggetti, persone e non il reato che hanno commesso, l’umiltà ci è stata di aiuto. Entriamo senza saperi precostituiti, tantomeno modelli rieducativi che li rettificano.
Siamo lì a svolgere i nostri laboratori il ‘gruppo di parola’ siamo li per ascoltarli, sottolineare qualcosa che crei in loro dubbi e riflessioni, a volte rinviare la loro stessa frase con un interrogativo. Soprattutto facciamo in modo che nascano in loro delle domande, delle perplessità. Sono quasi sempre i partecipanti al gruppo a dare risposte all’altro, spesso sono crude, dure, giudicanti, feroci.
Sono però le loro parole.
Per la prima volta i detenuti in questi bracci o sezioni ‘differenziate’, attraverso l’uso della parola si rispecchiano nell’altro, in quei reati che neanche loro riescono a nominare. Noi non li chiamiamo con il cognome con un fare spersonalizzante, non vogliamo sapere quali sono i loro reati, sono loro quando vogliono e si sentono pronti a raccontarli.
Gli argomenti come anche le riflessioni che si producono nei due carceri, diventano un materiale prezioso per la loro presa di consapevolezza del danno arrecato e sulla motivazione che li vede reclusi.
Unico lavoro possibile contro la recidiva.
Il nostro approccio non è mai stato giudicante, ne è mai entrato in merito a questioni giudiziarie che non ci competono. E’ accaduto che per rispecchiamento dell’altro che parla è un altro detenuto a esprimere giudizi.
Per i primi mesi sono stati loro ad osservare noi, per mesi ci hanno sollecitato sfidandoci nelle varie angolazioni, se la nostra posizione era di osservazione, se eravamo lì con una finalità rieducativa, se la nostra presenza aveva come obiettivo quello di rimandare loro la gravità dei loro reati commessi o se la loro assiduità nel gruppo avrebbe prodotto dei vantaggi ai fini della pena. Da parte nostra hanno ricevuto tanta chiarezza, non ci sarebbero stati sconti di pena per chi frequentava il gruppo, erano liberi di scegliere se rimanere o non partecipare.
Che idea vi siete fatte ascoltando questi particolari detenuti? Prima di iniziare questo progetto non sapevamo se saremmo state in grado di trasmettere il nostro disinteresse alle loro questioni giudiziarie; i detenuti, tutti, hanno bisogno di giustificarsi del reato commesso, soprattutto chi ha commesso questo tipo di reato. Quando hanno visto che non ci siamo contrapposte al loro dire hanno allentato i loro timori, forse è li che abbiamo veramente cominciato a lavorare. Una regola che abbiamo dato subito, l’unica, è stata quella di come usare la parola. Non usare violenza parte anche dal rispetto dell’altro e dal saper attendere che l’altro concluda quello che sta dicendo senza prevaricare.
La cosa più complicata è stata formare il gruppo e darsi fiducia, soprattutto tra loro è stata la cosa più complessa, all’interno di un reparto già isolato e discriminato avviene un’ulteriore discriminazione, quella tra loro. Nel braccio o sezione gli stessi detenuti si dividono per reati commessi creando un - altro da loro - che li distanzi da un reato innominabile. Districarsi tra consuetudini carcerarie ha significato parlare per mesi di stereotipi, di giudizi, consolidati nel gergo e nella quotidianità del carcere.
Questo è stato un lavoro lungo perché si sono dovuti interrogare per primi loro, leggersi dentro, mettersi in gioco nel giudizio del coinquilino di cella.
A questo punto del percorso potete fare una sorta di bilancio deiu risultati? Le fasi sono state tante e diverse, molti sono gli obiettivi che abbiamo raggiunto. Il gruppo di parola nonostante l’assenza di sconti di pena, con il tempo è cresciuto, delle volte gli spazi diventano piccoli per quanti siamo, nel braccio c’è un passa parola e quando arriviamo ci aspettano ai cancelli e ci chiedono di entrare nel gruppo laboratoriale.
Oggi continuiamo ad andare in carcere anche se il progetto è terminato perché non possiamo far cadere la loro fiducia nè lasciare a metà un lavoro prezioso come questo. Come associazioni Ponte Donna e Il Cortile oggi ci preme ringraziare la Chiesa Valdese che nel 2015 ci ha finanziato il primo intervento e poi la Regione Lazio che nel 2017 attraverso il Bando 'Progetti per la prevenzione e il contrasto alla violenza' ci ha riconosciuto un altro finanziamento. Per il resto ringrazio l’équipe che continua a lavorare con la stessa professionalità volontaristicamente nel progetto Uomini Liberi dalla Violenza.
Il gruppo lavoro anche all'esterno degli Istituti di pena? Sì, certo. Il Centro di Ascolto esterno riceve su appuntamento, ecco i numeri: 06 06869698 (risponde Il Cortile) al telefono mobile cell. 3407022076 (risponde Ponte Donna).
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