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Il coraggio di Concetta affogato in un bicchiere di acido muriatico

Il coraggio di Concetta affogato in un bicchiere di acido muriatico

Alcune donne, che avevano deciso di collaborare con gli inquirenti, si sono suicidate con l'acido muriatico, vanificando il coraggio di scegliere di schierarsi contro le organizzazioni criminali d'appartenenza.

Venerdi, 02/09/2011 -
Sono trascorsi pochi giorni dalla morte della trentunenne Concetta Cacciola, collaboratrice di giustizia, a seguito delle tremende lesioni interne causate dall’acido muriatico ingerito. La scorsa primavera aveva deciso di raccontare le storie della malavita calabrese, vissute indirettamente perché nipote del boss Gregorio Bellocco e moglie di Salvatore Figliuzzi, altro esponente delle organizzazioni criminali locali. Il programma di protezione concessole dallo Stato aveva determinato l’allontanamento dai figli, confinata com’era in una località segreta del Nord. Ad agosto, però, è rientrata a Rosarno per rivedere i suoi cari e di lì a pochi giorni è stata ritrovata morta suicida. Per dirla con le parole di don Marcello Cozzi, rappresentante in Basilicata dell’associazione Libera, ci troviamo di fronte ad una doppia sconfitta dello Stato perché, se realmente Concetta ha deciso di morire, è probabile che questa scelta sia stata suffragata da un insufficiente programma di protezione, che l’aveva lasciata sola con la sua decisione di collaborare con la giustizia; diversamente, se è stata “suicidata”, occorrerà che ci interroghi sull’effettiva qualità delle misure poste a garanzia della sua vita. Questa seconda ipotesi appare quantomeno da prendere in considerazione, perché nel giro di 8 mesi ben 3 donne, che avevano deciso di infrangere il muro di omertà imposto dalle famiglie malavitose, hanno subito la stessa morte, ossia per il tramite dell’acido muriatico. Così, come per Concetta, è stato per Orsola Fallara, dirigente del settore bilancio e finanza del comune di Reggio Calabria, e per Santa Buccafusca, moglie di un boss delle cosche vibonesi. Sono proprio le medesime modalità di morte a gettare ombre su questi suicidi, perché fa specie che chi decida di togliersi la vita utilizzi un mezzo che causa sofferenze e dolori lancinanti, prima che si esali l’ultimo respiro. Parrebbe un messaggio occulto da far comprendere a quante abbiano la tentazione di diventare informatrici, consentendo agli inquirenti, per il tramite dei loro racconti, di ottenere risultati positivi sul fronte della lotta e del contrasto alle organizzazioni criminali. Adriana Musella, presidente di Riferimenti, il Coordinamento nazionale antimafia, recentemente ha chiesto alle donne di mafia un atto di coraggio per emanciparsi dai vincoli con le “famiglie” malavitose, in nome dei loro figli. Evidentemente si è di fronte ad una parziale presa di coscienza sul tema in questione, determinata dalla consapevolezza e la volontà di contribuire a costruire un mondo ed una vita migliore per sé e per i propri congiunti. Ne è prova evidente Denise Cosco, figlia diciottenne di Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia, uccisa nel 2009 alla periferia di Milano e sciolta nell’acido per ordine del suo compagno, Carlo Cosco. Questa giovane donna ha deciso di onorare la memoria ed il coraggio della madre costituendosi parte civile contro il padre ed il sistema che egli rappresenta, perché, come scrisse Denise in un sms, non sapeva più cosa fare. “Così fanno fuori pure me, devo stare zitta e basta”, ma quel “basta” deve esserle apparso un macigno così tremendamente pesante da farle perdere ogni speranza nel futuro. Lei che, invece, vuole essere una ragazza normale con i suoi diciotto anni, desiderosa di aprirsi ad un mondo normale che non ha mai conosciuto, costretta, come è stata, o a nascondere la sua infanzia con la madre sotto il programma di protezione, o ad annullarsi come adolescente sotto le leggi dell’antistato, perché dopo l’uccisione di Lea fu obbligata a ritornare da Milano in Calabria. Denise con un atto di coraggio è riuscita a superare il tormento della condizione ambivalente di figlia ed orfana di mafia e costituendosi parte civile nel processo contro il padre spera di assicurare a sé ed ai propri figli un futuro di vita e non di morte. La sua volontà, però, da sola non basta, occorre che la sua decisione sia suffragata da un adeguato sistema di garanzie a tutela della sua incolumità. Non vorremmo che mai assaggiasse l’acido muriatico, come è stato in questi ultimi mesi per Concetta, Orsola e Santa e qui entra in gioco la credibilità dello Stato, che deve assicurare a chi sceglie di collaborare con gli inquirenti una vita sufficientemente dignitosa. Concetta, probabilmente, è morta perché, ritornata in Calabria  per rivedere i figli, lasciati al momento di entrare sotto il programma di protezione, non ce l’ha fatta a sopportare le pressioni causate dalla sua scelta di contravvenire alle regole dell’omertà malavitosa. Un fenomeno nuovo, sfuggito al controllo dei clan criminali, rischia conseguentemente di trovare le istituzioni pubbliche incapaci di governarlo e atte a vanificare l’audacia messa in campo da queste donne nella costruzione di un mondo nuovo per i loro cari e di riflesso per tutti noi. Denise, pensando al suo presente, ha detto di recente: “ripongo una grande speranza in questo processo”, la speranza di una rinascita avvenuta nel nome della madre e di quante come lei hanno deciso o decideranno di non essere corresponsabili di un sistema fatto di soprusi, violenza e morte.                      

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