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Gran Bretagna - Moda e Potere

Gran Bretagna - Moda e Potere

- Al Design Museum di Londra una mostra ripercorre il rapporto delle donne occidentali con la moda, vista come uno strumento di potere

Silvia Vaccaro Giovedi, 02/04/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2015

Non v’è alcun dubbio che la moda - intesa come stile prima che come comparto industriale - abbia avuto da sempre e abbia tuttora molto a che vedere con la rappresentazione sociale degli individui. Ci si può riconoscere in uno stile e indossare determinati abiti per appartenere a un gruppo, o al contrario, decidere di non seguire nessuna regola e inventarsi un proprio stile, o ancora, rifiutare l’idea che “l’abito faccia il monaco” e non prestare nessuna importanza alla moda. Questo atteggiamento però è francamente sempre più raro, soprattutto in una città come Londra dove tutti e tutte si vestono come vogliono ma, al tempo stesso, sono molto attenti alle tendenze e consapevoli di avere il potere di crearle, data la ricettività del tessuto urbano di afferrare tutto ciò che è nuovo e potenzialmente cool.



Nel caso della mostra Women Fashion Power (in corso al Design Museum di Londra fino al 26 aprile) al centro della scena c’è l’evoluzione della moda femminile nel ventesimo secolo e il fil rouge che i curatori, Colin McDowell e Donna Loveday, hanno deciso di seguire è l’interessante intreccio tra moda, potere e libertà. Da subito si intuisce la complessità e l’ambiguità di questo rapporto sempre in divenire: il significato di un abito non è mai stato qualcosa di semplicemente dato, ma è sempre dipeso dal contesto sociale e dalla personalità e dal gusto della donna che lo indossava. Partendo dalla figura di Eva, cacciata dall’Eden e condannata a doversi coprire, si incrociano alcune figure di donne, da Giovanna D’Arco ad Angela Merkel, che, con tutte le differenze del caso, hanno preferito uno stile rigoroso e androgino come scelta di libertà. Diversa la storia di Maria Antonietta regina di Francia, che al contrario prediligeva mise che esaltassero la sua femminilità, differenziandosi così dalle precedenti regnanti. Un caso ancora a parte l’immancabile Regina Elisabetta II, incoronata a venticinque anni nel 1953 (prima cerimonia di incoronazione trasmessa in TV), che è stata in grado di creare, anche attraverso il suo modo di vestire, l’immagine di una “monarchia capace di non passare mai di moda”.



Libertà di uscire dai limiti.

Dopo secoli di costrizione in corsetti rigidissimi, a partire dalla fine del 1800, alcune cose iniziano a mutare. La diffusione di alcuni sport come l’equitazione o l’andare in bicicletta, favorirono l’abbandono delle gonne ampie e rigide in favore di favore di gonne-pantalone, che accompagnavano le donne desiderose di sperimentarsi in attività dinamiche. Un grande merito va riconosciuto a due sarti, le cui idee, rivoluzionarie per l’epoca, offrirono alle donne un nuovo modo di vestire semplice e pratico. Paul Poiret, francese classe 1879, decise di abolire il busto inventando una linea stile impero, con la vita alta e la gonna stretta e lunga. Insieme a lui Mario Fortuny, veneto, nato nel 1871, che creò invece una sorta di tunica di seta, prendendo ispirazione dalle vesti dell’antica Grecia. L’inizio del 1900 vide anche il sorgere dei movimenti per il diritto di voto alle donne.



Celeberrimo quello inglese delle suffragette, guidato da Emmeline Pankhurst (che avrà il volto di Meryl Streep nel film “Suffragette” in sala il prossimo autunno), che scelsero abiti e fabbricarono oggetti da vendere per finanziare le loro campagne, tutti caratterizzati dai colori verde, bianco e porpora, (che richiamavano i valori di speranza, purezza e regalità) in modo tale da essere facilmente riconoscibili durante le manifestazioni. Gli abiti erano volutamente “femminili”, proprio per rovesciare i tanti stereotipi che dipingevano le attiviste come volgari e mascoline. Un contributo molto importante allo sdoganamento della moda fu dato anche dal magazine Vogue, che uscì per la prima volta nel 1892 in America e nel 1916 nel Regno Unito, e dall’apertura nel 1909 di Selfridges, il primo grande centro commerciale a Oxford Street, dove fare shopping divenne un’esperienza di socialità.



 Libertà di lavorare, di avere una professione. Di essere femministe e di scegliere.

L’impatto delle due guerre mondiali sul modo di vestire delle donne fu impressionante. Moltissime donne diventarono “gli uomini di casa” sostituendo i mariti impegnati in battaglia, e al tempo stesso tante di loro iniziarono a lavorare: costruivano armi e navi nelle fabbriche, lavoravano nelle fattorie e come infermiere direttamente nei vari campi di guerra. Nonostante i tempi difficili di povertà, soprattutto nella fase tra i due conflitti, l’industria hollywoodiana creava un immaginario di divertimento e di fuga dalle difficoltà, fatto di eroine femminili che veicolavano un’idea di moda e bellezza che voleva essere, o quantomeno sembrare, accessibile a tutte le donne. #foto5dx# Le dive del cinema americano come Marylin Monroe e Liz Taylor, diventarono famose in tutto il mondo sia come attrici che come icone a cui ispirarsi in fatto di look. Questo aprì la strada alla scelta di un abbigliamento completamente diverso e crebbe esponenzialmente il comparto tessile: dalla sartoria su misura alla produzione di massa. Cambiò anche se lentamente il senso del pudore. Dopo decenni di costumi da bagno che scoprivano il corpo il meno possibile, nel 1946 Louise Réard lanciò il primo modello di bikini, contenuto in una piccola scatola. Lo stilista non trovò nessuna modella che si prestò a sfilare con un indumento così osceno e alla fine il costume da bagno venne indossato dalla diciannovenne Micheline Bernardini, ballerina al Casino di Parigi. Seguirono gli anni sessanta, e la moda iniziò ad essere un bene di largo consumo. Londra era il centro del mondo: la stilista inglese Mary Quant inventò la minigonna e la modella inglese Twiggy fu icona incontrastata di stile. Le tendenze più diffuse furono i richiami allo spazio, alla pop art e allo stile hippie.



L’invenzione della pillola anticoncezionale e il massiccio ingresso nel mondo del lavoro aprirono per le donne una strada di maggiore libertà, lastricata ancora però di disparità salariali e di avanzamento di carriera. negli anni ’70 i movimenti e le teorie femministi misero al centro della questione il ruolo della donna nella società, contestando l’uso di alcuni indumenti come ad esempio i reggiseni, visti come nuovi limiti imposti alla libertà dei corpi femminili, e al tempo stesso, rivendicando la necessità di un’autodeterminazione totale delle donne in fatto di stile. Seguirono gli anni ’80 e ’90, decenni in cui tante donne entrarono in politica e nelle stanze di comando delle aziende. In quegli anni Il rapporto, sempre fecondo, tra moda e arte, fu colto magistralmente da stiliti come Jean Paul-Gauthier e Vivienne Westwood e interpretato da icone come Madonna, Boy George e David Bowie. Gli ultimi 25 anni hanno visto un’ulteriore rivoluzione con la diffusione globale delle creazioni di moda, delle sfilate, e non da ultimo, la possibilità attraverso internet di comprare direttamente on-line senza passare dai negozi. La mostra, che si concentra sull’importanza del fashion nelle società occidentali, lascia aperti tanti interrogativi, legati soprattutto alla produzione dei vestiti. Un business milionario, che si regge sulle fragili spalle di lavoratori e lavoratrici del sud del mondo, pagati una miseria rispetto ai profitti che creano: una moda economica e fast food, consumata senza badare troppo a cosa c’è dietro un’etichetta “Made in Cambogia”, né a dove finiranno i vestiti che decidiamo sempre più facilmente e velocemente di buttare, per poterne comprare di nuovi.  

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