Gabriella Romano ‘scopritrice di storie’: il coraggio e la ribellione contro lo stigma
Presentato alla Fondazione Basso il volume storico: ‘Italian Fascism’s Forgotten Victims. Asylums and Internment, 1922 – 1943’. Storie di persone LGBTQIA+ internate e di medici controcorrente
Martedi, 04/06/2024 - Gabriella Romano, saggista e documentarista impegnata nel campo della storia LGBTQIA+ italiana, ha presentato il suo libro, "Italian Fascism’s Forgotten Victims. Asylums and Internment, 1922 – 1943" (Bloomsbury 2024, p. 247), a Roma alla Fondazione Basso il 28 maggio.
Insieme a lei: Laura Schettini (Università di Padova), Alessio Ponzio (Università di Torino) e Rosanna De Longis (Società Italiana delle Storiche). Per la prima volta un saggio è interamente dedicato all’internamento in manicomio di persone LGBTQIA+.
L’autrice, che si occupa di storia dell’omosessualità da più di trent’anni, si concentra su tre istituzioni manicomiali (Roma, Firenze e Girifalco) per il periodo della dittatura fascista. Nella prima parte analizza la teoria psichiatrica del Ventennio in relazione alla sessualità, omosessualità e “ermafroditismo”, e chiarisce in che misura questa sia stata debitrice sia ai predecessori italiani che ai teorici d’Oltralpe, principalmente tedeschi, francesi e spagnoli. Nella seconda parte presenta i risultati delle sue ricerche condotte negli archivi che l’hanno portata ad individuare una serie di casi di persone LGBTQIA+ internate durante il fascismo. Le abbiamo posto qualche domanda per NOIDONNE.
Gabriella, perché hai deciso di prendere in esame proprio questo tema?
Il punto focale della mia ricerca è sempre l’esperienza delle persone queer durante il fascismo, ma la generazione dei sopravvissuti alla dittatura è quasi completamente scomparsa. Quindi è necessario interrogare gli archivi per cercare di completare un quadro ancora molto scarno di dettagli. Poi la vicenda dell’internamento di persone LGBTQIA+ è ancora inedita, se ne sa molto poco e mi sembrava interessante, oltre che doveroso, tentare di far luce su questo spinoso argomento.
Come sei riuscita ad identificare i pazienti LGBTQIA+ negli archivi che hai preso in esame?
È stato piuttosto difficile perché spesso l’omosessualità non appare nella diagnosi trascritta nel Registro delle Ammissioni. Io ho preso in esame una serie di categorie diagnostiche piuttosto ampia collegata alla immoralità, la degenerazione e la perversione. All’interno di alcune cartelle di persone internate con diagnosi che cadevano in queste categorie ho trovato poi menzione dell’omosessualità o quella che chiameremmo oggi transessualità del/la paziente. Tuttavia ho anche individuato pazienti omosessuali e transessuali internati con diagnosi molto diverse, tipo demenza precoce, che ho esaminato in seconda battuta, per fare un risconto, o che ho consultato quando non era presente il Registro delle Ammissioni, per esempio a Girifalco, dove ho aperto e letto tutte le cartelle per gli anni 1924, 1933 e 1939. È apparso evidente che l’inversione sessuale era considerata come un corollario, un aspetto di una condizione psichiatrica complessa, uno dei sintomi della degenerazione. Inoltre, mettere in secondo piano l’omosessualità corrispondeva anche al richiamo del regime, che insisteva sul fatto che in Italia gli omosessuali non esistessero. E forse, tacere su questo aspetto comportava anche delle complicazioni in meno in termini di isolamento e sorveglianza di questi/e pazienti, in istituzioni allo stremo, traboccanti di internati e cronicamente sotto-finanziate. Infine, ho registrato una scarsa convinzione da parte dello staff medico dei tre manicomi che ho analizzato, circa l’effettiva necessità di internare questi/e pazienti: non erano mai definiti pericolosi, molti erano tranquilli, collaborativi, e, poiché erano giudicati incurabili in quanto l’omosessualità era sempre più spesso ritenuta congenita, i medici ne caldeggiavano le dimissioni.
Laura Schettini e Rosanna De Longis, alla presentazione, ti hanno definita “scopritrice di storie”: Violet Gibson internata per un breve periodo al S. Maria della Pietà a Roma, prima di essere trasferita in un manicomio britannico, a seguito del suo attentato a Mussolini; G. internato a Collegno per omosessualità; Lucy Salani, transessuale MtoF che ha vissuto la drammatica esperienza dell’internamento a Dachau ... è una definizione in cui ti ritrovi?
Mi piace la definizione “scopritrice di storie”! A me interessano molto le storie individuali e, dove possibile, le ho messe in evidenza. Le trovo anche molto efficaci nel dare una dimensione concreta alla storia, per rendere più tangibili e comprensibili dei fenomeni storici generali che rischiano di rimanere astratti se non sono declinati al singolare. Uno degli aspetti più interessanti della mia ricerca è stato proprio poter dare tridimensionalità a chi era una figura di carta, in una cartella medica sepolta in un archivio polveroso. I pochissimi casi di internati LGBTQIA+ che ho rintracciato sono molto importanti per far luce sullo stile di vita delle persone queer, il loro background culturale, socio-economico e affettivo, aspetti su cui, per il periodo fascista e non solo, si sa ancora pochissimo.
Fra le storie che hai trovato c’è qualche caso di donna internata per lesbismo?
Ho trovato soltanto un caso, a Firenze, di una giovane bisessuale, internata su richiesta di sua madre. La sua diagnosi era: imbecillità intellettuale e morale. In cartella, c’è il resoconto della madre circa la sua condotta scandalosa, le sue passioni amorose per delle donne sin dalla sua giovane età, i suoi rapporti liberi e sfrontati con un ragazzo. Si tratta di un’eccezione. Le definizioni riguardo alla sessualità femminile sono in genere molto vaghe e, nelle cartelle che ho consultato, non entrano quasi mai nel merito dell’immoralità di queste persone. Molte donne sono finite in manicomio per immoralità, amoralità, pazzia morale e diagnosi simili, molte venivano definite “erotiche”, ma la natura della loro attrazione sessuale non è spiegata. Erano la sessualità femminile, il desiderio, l’interesse per il sesso, etero o lesbico, ad essere patologizzati in una donna, in quanto all’epoca le persone di sesso femminile “normali” dovevano essere soltanto madri, casalinghe e mogli amorevoli. La precocità sessuale era considerata un aspetto preoccupante della degenerazione, per esempio, e molte ragazze venivano rinchiuse in manicomio perché avevano dimostrato interesse per un ragazzo o perché si masturbavano, per esempio. La sessualità femminile era in contrasto con quello che era l’ideale della donna, su cui fascismo e chiesa cattolica erano perfettamente in accordo: il sesso doveva essere finalizzato soltanto alla procreazione, tutto il resto era un’anomalia da correggere. In pratica, per quanto riguarda l’internamento delle lesbiche, c’è molto sommerso che purtroppo resterà tale: sotto definizioni come “compie atti osceni”, “ha comportamento scandaloso” ci saranno state sicuramente delle lesbiche, ma gli storici e le storiche non possono provarlo.
Che ruolo aveva la famiglia negli internamenti di queste persone?
La famiglia ha avuto un ruolo fondamentale. Spesso erano proprio le famiglie che affidavano un loro famigliare dalla sessualità “diversa” alla psichiatria, per sbarazzarsi di una persona la cui condotta era ritenuta scandalosa e non-conforme. Gli italiani, durante il Ventennio, consideravano la psichiatria come un servizio a loro disposizione, cioè avevano assorbito il concetto che il manicomio fosse una misura punitiva efficace per i/le ribelli, oppure un luogo che serviva ad allontanare dalla società i soggetti difficili, immorali, improduttivi e via discorrendo. I casi in cui l’omosessualità appare nella diagnosi che giustifica l’ammissione solitamente sono di persone inviate al manicomio dalla famiglia o dalle forze dell’ordine. L’articolo 1 della legge 1904 che il fascismo lasciò immutata, prevedeva che una persona potesse essere internata se fosse stata di scandalo o pericolosa a sé e agli altri. Risulta evidente che fosse molto facile allargare il concetto di scandalo a tutta una serie di comportamenti giudicati non idonei e fuori dalla norma. L’applicazione sempre più stringente di questo articolo ha fatto salire esponenzialmente il numero di internamenti durante la dittatura in Italia ed è stato uno strumento di repressione della sessualità, del dissenso politico, della diversità, dei comportamenti contrari alle regole imposte dalla propaganda e così via.
Perché hai scelto proprio questa foto per la copertina del tuo libro?
La copertina mostra una parte del volto di un paziente internato a Firenze la cui sessualità fu considerata ambigua e pertanto divenne oggetto di studio. Il corpo di N.N. non corrispondeva ai canoni della “normalità” e venne misurato, commentato, analizzato in dettaglio perché il caposaldo della teoria d’ispirazione lombrosiana diceva che le incongruenze fisiche rimandavano inevitabilmente a quelle morali e intellettuali. Inoltre, il mancato raggiungimento dei criteri di “normalità” fisica era ritenuto un segnale importante di un presunto intrappolamento ad uno stadio evolutivo intermedio, indice di una bisessualità originaria che, nello sviluppo di una persona “normale” doveva invece scomparire. N.N., rimasto orfano in giovanissima età, dato in affido a svariate famiglie di contadini che sfruttarono il suo lavoro aveva una disposizione pilifera ritenuta femminile. I suoi arti risultavano troppo lunghi, i suoi atteggiamenti erano ritenuti infantili, aveva scatti di rabbia. Inoltre, anzi forse soprattutto, non dimostrava interesse per le donne. La sua fotografia di profilo mi ha molto colpito perché non è un profilo vero e proprio, è quasi un tre-quarti, come se questo giovane si stesse girando verso chi lo immortalava. Le sue labbra leggermente dischiuse sembrano essere in procinto di aprirsi per iniziare a parlare.
Mi è sembrata una bella immagine di una persona che non è stata un fantoccio inerte nelle mani della psichiatria, ma anzi ha cercato di reagire. In tutte le storie che sono riuscita a recuperare dalle carte degli archivi ho trovato molto coraggio, specialmente in alcuni casi di persone che oggi chiameremmo trans. Gente che ha vissuto in un’epoca in cui lo stigma nei loro confronti era terribile e che, nonostante tutto quello che ha subito, inclusa l’umiliazione dell’internamento, ha tenuto la testa alta ed ha fatto dichiarazioni sconcertanti, senza timore di scandalizzare. E le note degli psichiatri ci aiutano a completare il quadro, aggiungendo dettagli sul loro stile di vita, testardamente controcorrente e visibile.
Ecco, questo libro è dedicato a questo coraggio, ma anche alla ribellione degli psichiatri che li hanno avuti in cura e che, in più di un’occasione, hanno capito queste persone, ne hanno ricostruito la biografia perché non li hanno pensati soltanto come un insieme di misurazioni e proporzioni, ma anche come degli individui con una storia, un contesto, dei legami affettivi, un lavoro. E ne hanno sovente raccomandato le dimissioni, in contrasto con la teoria psichiatrica imperante e con il regime che li voleva solo carcerieri, custodi di discariche sociali e meccanici misuratori seriali di membra e crani.
Molte le domande del panel e da parte del pubblico alla presentazione, molti gli interrogativi sollevati da questa pubblicazione. Il libro per il momento è disponibile soltanto in hard-back, in inglese, ma è prevista l’uscita imminente della versione in paper-back, che avrà un prezzo accessibile al grande pubblico. Ci auguriamo che esca presto anche la traduzione italiana.
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