Parliamo di Bioetica - Di fronte ai femminicidi, una autentica ‘guerra di genere’, e ai richiami suggestivi alla barbarie della jihad, occorre meditare sulla nostra storia di barbarie giuridica
Battaglia Luisella Domenica, 13/11/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2016
PCon l’art 587 il nostro ordinamento giuridico interpretava il valore particolare che la società attribuiva all’onore personale e familiare, in connessione esclusiva con i costumi sessuali. Era un incentivo all’omicidio
L‘art. 544 del Codice penale accordava un trattamento privilegiato all’uomo che, avendo commesso una violenza carnale su una minorenne, offriva alla vittima un matrimonio riparatore. In caso di accettazione il reato era estinto
Il femminicidio rappresenta la sopravvivenza di idee antiche di onore legato alla proprietà del corpo femminile e all’affermazione della potestà maschile
Dinanzi all’ondata crescente dei femminicidi, se vogliamo accantonare sia il dibattito teorico sull’appropriatezza o meno del termine, sia la liturgia rituale delle deprecazioni, non ci resta che riflettere sulla ‘guerra di genere’ che si sta scatenando con inaudita violenza nel nostro paese. Credo, infatti, che, al di là di richiami suggestivi alla barbarie della jihad, che ravvisa somiglianze tra i maschi assassini e i guerriglieri del califfato, sia più proficuo meditare su una storia abbastanza recente di barbarie giuridica tutta nostra che forse ci può illuminare sulla criminalità di certi comportamenti.
Dovremmo, ad esempio, ricordarci che per lungo tempo il nostro Codice penale aveva previsto un trattamento speciale per chi commetteva un delitto per causa d’onore. Secondo l’articolo 587 “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni”. Il nostro ordinamento giuridico interpretava così il valore particolare che la società attribuiva all’onore personale e familiare, in connessione esclusiva con i costumi sessuali. Di fatto, il diritto di recuperare il proprio onore, commettendo un delitto sanzionato con una pena irrisoria, funzionava come incentivo all’omicidio, tanto più che chi non se ne avvaleva subiva una pesante sanzione, particolarmente in certe comunità, dalla pubblica opinione. Indimenticabile è il quadro tracciato da Pietro Germi in “Divorzio all’italiana” con l’irrisione inflitta a Fefè da tutta una comunità che si trasmette le “ultime novità sul fronte delle corna” in attesa che venga compiuto il delitto riparatore - un delitto che, come sappiamo, servirà al protagonista per liberarsi da una moglie ingombrante e convolare a nuove nozze. Così la legge, invece di contrastare la barbarie del costume, la recepiva elevandola a diritto. Alla stessa matrice ideologica può esser fatto risalire l‘art. 544 del Codice penale che accordava un trattamento privilegiato all’uomo che, avendo commesso una violenza carnale su una minorenne, offriva alla vittima un matrimonio riparatore: in caso di accettazione, il reato era estinto. In tal modo, il diritto dello stupratore a fruire dell’impunità, grazie al matrimonio riparatore, sanciva la violazione dell’integrità e della dignità come comportamento tollerato dal nostro ordinamento.
Si ricorderà che fu una ragazza coraggiosa, nel 1966, Franca Viola, a rifiutare imprevedibilmente di sposare il suo aggressore e, quindi, a inchiodarlo alla sanzione penale. Un gesto di grande valore simbolico che significava il rifiuto di subire la tirannia del costume e l’arretratezza del diritto e, insieme, la volontà di affermare la dignità della donna. Barbarie del diritto - si dirà - da cui ci siamo felicemente liberati (entrambi gli articoli furono abrogati nel 1981). Ma la realtà non è così semplice. Come dimostra la strage odierna, le sopravvivenze di quelle idee antiche di onore, legato alla proprietà del corpo femminile e all’affermazione della potestà maschile, sono ancora sotterraneamente presenti tra noi. Certo, abbiamo avuto la liberazione sessuale, il riconoscimento almeno formale di pari diritti, l’avanzata del femminismo ma… si tratta solo della punta dell’iceberg. Nel femminicidio riaffiora infatti l’idea mai sopita di fare giustizia, di ristabilire l’ordine patriarcale violato.
Non esiste, come ameremmo credere, un’evoluzione progressiva dell’etica. Come il luogo della terra in cui abitiamo è sorretto da vari strati geologici, così il presente dei nostri costumi è formato da elementi costitutivi di età differenti, ciascuno dei quali si è formato in altri contesti. Le nostre concezioni del bene e del male crescono una sull’altra come strati sovrapposti che esprimono spesso disarmonie e lacerazioni della coscienza. Dovremmo oggi riconoscere di trovarci in presenza di aberrazioni ideologiche che appartengono a periodi diversi della nostra storia, una storia troppo recente perché ce ne possiamo dimenticare. Per questo non bastano le vaghe promesse che nelle scuole si introducano corsi mirati a un ‘riequilibrio di genere’, o gli annunci tardivi di ‘una cabina inter-istituzionale antiviolenza sulle donne’. Nel frattempo si chiudono i centri anti violenza e le case delle donne che garantivano una continuità nell’impegno e nei servizi a favore delle vittime! Nella situazione di emergenza che stiamo vivendo, il legislatore deve intervenire in maniera urgente e decisa, inserendo - come da più parti si propone - il femminicidio fra i reati per i quali il condannato non può ottenere benefici penitenziari e trattando gli assassini come i mafiosi, compreso il sequestro dei beni e il risarcimento immediato del danno. Ma il vero risarcimento degli errori del passato è che venga sancita la gravità assoluta di un crimine che offende la nostra coscienza civile, riportandoci ad una barbarie che abbiamo vissuto e che credevamo di avere definitivamente superato.
Lascia un Commento