Detenzione e etica della risocializzazione - di Anna Rita Silvestri
Una riflessione dalle Aree Educative Penitenziarie: occorre potenziare l’esecuzione penale mantenendo centrale l'analisi dei bisogni e intervento nel campo socio-pedagogico
Sabato, 07/08/2021 - Se il carcere non è solo un luogo di custodia e di separazione - temporanea o a vita - dalla società libera, allora ci vuole un deciso investimento nelle culture e nell’etica della risocializzazione, per il recupero alla vita sociale di persone che hanno percorsi di vita deviante, più o meno strutturati.
I soggetti meno strutturati in carcere non dovrebbero proprio entrare, anche se i servizi socio-psico-pedagogici e sanitari del carcere riescono ad offrire la prima e, spesso, unica presa in carico dei bisogni e delle problematiche personali e sociali degli autori di reato, assolvendo ad una funzione che la rete di prevenzione sul territorio a tutt’oggi non riesce ad assicurare.
D’altro canto, va mantenuta la valutazione del rischio di reiterazione dei reati e degli altri requisiti alla base delle misure cautelari, applicate nell’immediatezza dell’arresto, così come per la scelta di misure alternative alla detenzione sia essa operata dalla magistratura di sorveglianza o da quella giudicante, come previsto dalla riforma giudiziaria in corso.
Il codice del processo penale minorile (D.P.R.448/88) ci offre una diversa prospettiva sul tema: in esso la presa in carico socio-psico-pedagogica e sanitaria dell’autore di reato avviene già in fase istruttoria e non solo nella fase finale dell’esecuzione penale. I Servizi Sociali del Ministero della Giustizia, composti sia da assistenti sociali sia, in misura davvero minima attualmente, da funzionari pedagogici, operando in sinergia con i servizi e le strutture socio-sanitarie territoriali, vengono investiti dalla magistratura giudicante di un mandato per l’analisi dei bisogni del reo e per un’eventuale mediazione penale sin dal rinvio a giudizio o, persino, a partire dalla notizia di reato.
Dai maggiorenni in su, invece, questa attività basilare di analisi e progettazione educativa individualizzata è prevista dall’art.13 della legge penitenziaria (L.354/75, da ultimo modificata nel 2018), ma è riservata solo alle persone condannate in ossequio al principio costituzionale di non colpevolezza.
Sono centrali le persone, i loro bisogni e le loro motivazioni. Indipendentemente se imputati o condannati, si dovrebbe offrire anche agli adulti il supporto e l’intervento socio-pedagogico, che sempre e solo a partire dall’adesione volontaria della persona destinataria può essere avviato e realizzato.
Tutto questo richiede un investimento epocale per l’Italia in numero e qualità di figure professionali finora mantenute veramente residuali nel sistema dell’esecuzione penale sia dei minorenni che degli adulti. Siamo pronti a tutto questo? Sulla scia dei gravi fatti penitenziari emersi alle cronache nazionali e internazionali, in queste ultime settimane si è riacceso un dibattito che speriamo duri a lungo. Paradossalmente, c’è il rischio che a forza di assicurare solo la difesa dei diritti delle persone detenute il carcere diventi campo esclusivamente di controllo e sicurezza ancora nei termini solo “polizieschi”, di natura esecutiva e che agisce su divieti, e non nei termini di una relazione pedagogica fondata. Insieme ad un bel gruppo di colleghe e colleghi, funzionari pedagogici, stiamo lavorando da novembre 2020 per dare centralità alle Aree Educative Penitenziarie.
Troviamo che questo sia essenziale perché rientra in pieno anche con la prospettiva di estendere l’esecuzione penale prevalentemente all’esterno del carcere, come introdotto dalla riforma giudiziaria in votazione alle Camere: è prevista una diversificazione delle pene con una riduzione della carcerazione attraverso misure alternative già disposte in sentenza. Finché il settore socio-pedagogico penitenziario non accrescerà la sua autorevolezza e la sua consistenza, non potrà mai lavorare sull’esterno come fanno gli uffici di esecuzione penale esterna.
Per la predisposizione dei progetti di intervento educativo individualizzato resterebbe, come oggi, solo la delega ai servizi sociali del territorio, anche loro insufficienti e frammentati, e al servizio sociale penale.
È non più rinviabile la scelta verso un settore ben riconoscibile e professionalmente autonomo che gestisca le aree educative e di servizio sociale dell’esecuzione penale, sia essa in carcere o all’esterno, per adulti giovani-adulti e minorenni: con i suoi interventi individualizzati rappresenta la risorsa imprescindibile, e oggi gravemente carente, nel sistema di un’esecuzione penale realmente in linea con l’art.27 della nostra Costituzione.
Figuriamoci, poi, per tuffarci finalmente nella cultura della giustizia riparativa, che ci vede tra i paesi più in ritardo in Europa. Dentro le carceri, inoltre, la programmazione e organizzazione delle attività pedagogiche di comunità, la progettazione degli spazi detentivi e la regolamentazione interna dovrebbero costantemente avvalersi della visione pedagogica per mantenere coerenza tra contenuti, contenitore e risorse da assegnare.
Tutto questo è venuto meno progressivamente e sistematicamente negli ultimi trenta anni, lasciando crescere nell’amministrazione dell’esecuzione penale le contraddizioni culturali, operative e strutturali che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Anna Rita Silvestri, Coordinamento Nazionale Aree Educative Penitenziarie
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