Scrittrici migranti - Secondo (e ultimo) appuntamento con le migrant women writers, scrittrici migranti dell’Europa Centro-Orientale che pubblicano in lingua italiana
Cristina Carpinelli Martedi, 02/08/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2016
Tra le migrant women writers considerate, un’attenzione particolare meritano la slovacca Jarmila Očkayováe l’albanese Anilda Ibrahimi. La prima, oltre ad aver pubblicato Verrà la vita e avrà i tuoi occhi, che è stato il suo romanzo d’esordio, ha scritto altri racconti che vale la pena ricordare. Uno di questi è Occhio a Pinocchio (Cosmo Iannone, 2006). Originale rielaborazione del classico di Collodi, in questo libro Jarmila Očkayová sottolinea come gli umani non abbiano imparato quello che il burattino (ricavato da un vecchio pino) dalle sembianze umane con “l’anima millenaria del bosco” ha, invece, assimilato, crescendo dentro quel complesso ecosistema che è, appunto, il bosco. È un appello a conoscere, comprendere e a rispettare la diversità; tema ricorrente nei lavori della scrittrice slovacca. Il romanzo è denso di motivi fiabeschi, onirici e junghiani. Motivi che caratterizzano un po’ tutta la produzione letteraria dell’autrice slovacca. Un altro testo importante di Jarmila Očkayová è Appuntamento nel bosco (E. Elle, 1998). Ambientato nel 1992, nel pieno della guerra dei Balcani, narra la storia di Wanda, una ragazzina slovacca di 15 anni che vive in un piccolo villaggio contadino sotto i Monti Carpazi. Wanda ha tanti amici. Conosce e diventa amica anche di Ramona, una ragazzina croata della sua stessa età sfuggita alla guerra dopo la morte della madre e della sorella gemella. L’amicizia dura appena una settimana, ma in quel breve arco di tempo le due ragazzine sono inseparabili. Da Wanda, Ramona impara alcuni riti magici per comunicare con gli alberi o dipingere il cielo di nuvole. A Wanda piace molto la storia, ma solo quella dei libri, non quella reale, perché quest’ultima le incute paura. È molto bello il momento in cui, dopo aver svolto una ricerca in biblioteca, Wanda scopre che i croati sono originari dei Carpazi, e quindi corre dalla sua amica a dirle che in realtà non è affatto una rifugiata, ma è solo tornata a casa sua. Un giorno le due amiche decidono di compiere nel bosco un rito magico per richiamare in vita i morti. Il teschio, l’acqua di fiume, un pugno di sabbia. Mezzanotte. Tutto è pronto. Ma un tragico destino spezzerà i fili dei loro sogni…
Anilda Ibrahimi, oltre al suo primo romanzo Rosso come una sposa, con il quale approda alla scrittura italiana, e al romanzo L’amore e gli stracci del tempo, pubblica un altro testo Non c’è dolcezza (Einaudi, 2012). L’autrice spiega che con quest’ultima opera ritorna alle atmosfere ancestrali, arcaiche ed epiche del suo primo libro Rosso come una sposa. Il personaggio, a cui Anilda si sente più vicina, è quello di Eleni, per cui non c’è dolcezza: ama il figlio adottivo, ma da lui non riceve l’amore che desidera, e lo stesso succede con il marito che è stato lasciato dalla sua prima moglie. Sui protagonisti del libro incombe un amaro destino. L’apparizione periodica dei gitani con i loro canti rappresenta la colonna sonora della narrazione, attraverso cui è rievocato un mondo perduto di rispetto reciproco e di salde relazioni tra popoli diversi. Trama avvincente, che ha come sfondo l’Albania post-comunista travolta dai cambiamenti sociopolitici, e che attraverso le vicissitudini di personaggi “archetipici”, interroga il lettore su temi senza tempo: l’identità, i legami familiari - quelli di sangue e quelli acquisiti. Il libro affronta tematiche di grande rilevanza come la guerra, l’accettazione del diverso, l’immigrazione, i profughi, la violenza.
Le scrittrici migranti dell’Est da portatrici di bisogni sociali diventano sempre più portatrici di risorse creative. Spesso il loro repertorio letterario è caratterizzato da elementi simbologici e da metafore, come quello di Jarmila Očkayová, il cui stile particolarmente originale è, appunto, definito da elementi fiabeschi e simbolici, questi ultimi legati, ad esempio, agli alberi e alle radici, metafora di un’appartenenza recisa con l’emigrazione. Ricco di metafore, simbologie e motivi ricorrenti, contrariamente allo stile asciutto che di solito contraddistingue l’autrice, è anche il romanzo Il villaggio senza madri (Rediviva, 2012) della romena Ingrid Beatrice Coman, in cui troviamo la metafora del profumo, della casa, del destino - rappresentata dalla strada, la metafora del formicaio, simbolo dell’unione, il motivo carpe diem, ecc. Il romanzo tratta un tema sensibile e delicato: l’abbandono del figlio per cause materiali al confine con la sopravvivenza.
Fra i tratti unificanti riscontrati nei testi degli immigrati in Italia, al di là della provenienza degli autori, compare l’uso dell’italiano come lingua veicolare improntata sì allo standard ma arricchita da espressioni dell’area linguistica di appartenenza (con conseguenti italianizzazioni improprie di termini), fenomeni di errata generalizzazione delle regole grammaticali, di presenza di varianti regionali, registri e codici diversi, ecc. Jarmila Očkayová sostiene che sebbene per la stesura di un testo ci si cimenti in una sola lingua, in esso agiscono sempre due lingue, la madrelingua e quella adottata, con i loro “retroscena culturali, sociali e storici, le loro simbologie e abitudini cognitive, i loro anfratti psicologici e retaggi dell’inconscio”. Nasce, in questo modo, una scrittura che è eversiva, in quanto capace di mostrare tutto il suo “potenziale trasformativo”, a prescindere dai contenuti espressi, spezzando la monoliticità della letteratura italiana, sempre più indirizzata verso un modello “altro” di maggiore respiro transnazionale.
Con la loro attività le migrant women writers creano le condizioni ideali per la sperimentazione e la valorizzazione della diversità. Esse prospettano una nuova ermeneutica, consentendo una frequentazione interetnica che destruttura, decentra, destabilizza (perché, ad esempio, reclama lo status di letterato per individui che sono ancora oggi spesso inchiodati alle categorie di vu’ cumprà, badanti, lavoratori precari o irregolari, o comunque, nella migliore delle ipotesi, di semplice bracciantato). In questo senso, si pensi quanto possa essere travolgente (agendo entro l’immaginario popolare europeo) la letteratura migrante delle popolazioni gitane di origine Rom o Sinti sull’orientamento socio-politico e valoriale del Vecchio Continente, che ha sempre stigmatizzato, disprezzato quei popoli (sino a concepire e praticare il loro sterminio - al riguardo si leggano i versi struggenti delle poesie Olocausto dimenticato e La mendicante dei sogni della poetessa Sinti altoatesina Paula Schöpf) considerati come esclusivamente dediti all’accattonaggio e al vagabondaggio. Un impatto benefico immediato sortiscono, allora, alla lettura i testi (poetici e narrativi) di Dijana Pavlovič, romnì serba, attrice, mediatrice culturale, nonché traduttrice in lingua italiana di opere letterarie jugoslave.
Se una Madame de Staël, nel primo Ottocento, per invitare gli italiani a sprovincializzarsi e a entrare nel vivo della cultura europea, li esortava all’arte del tradurre, oggi - a quasi due secoli di distanza - la stessa Europa è chiamata ad abbandonare forme di campanilismo retrogrado, improponibili nell’era della globalizzazione, ma con un grande vantaggio rispetto all’Italia di allora: l’intero mondo è giunto fino all’Europa, la quale, attraverso gli scrittori migranti, parla le lingue che essa stessa si è data nel corso del tempo. Ogni paese europeo dispone di un identikit linguistico composito, essendo una mescolanza di etnie, paradigmi culturali ed esistenziali, stili e modelli di vita. Tuttavia, parla con una voce sola, con una sola lingua che lo contraddistingue. Il filosofo rumeno Emil Mihai Cioran [1911], emigrato a Parigi negli anni Quaranta, che scrisse sempre in francese, sosteneva che “prima ancora che un paese, si abita una lingua”.
Eppure, le opere in italiano degli scrittori provenienti dai molti ‘altrove’ del mondo non hanno ancora quella piena cittadinanza che meriterebbero. Dovremmo, invece, essere riconoscenti nei confronti di questi migrant writers, poiché, cimentandosi a scrivere nella nostra lingua, ci hanno consentito di conoscere le loro opere, che forse non sarebbero state tradotte, perdendo, di conseguenza, un patrimonio umano e culturale davvero incommensurabilmente grande.
Bisogna, dunque, leggere i loro libri. Ne vale la pena. Per vincere finalmente sull’etno-eurocentrismo e costruire quell’unica civiltà del convivere che è risposta univoca al plurimo interrogativo del mondo: quo vadis Italia/Europa? (seconda ed ultima parte)
Olocausto dimenticato
di Paula Schöpf
«Silenzio, desolazione, oscura notte / Il cielo è cupo, pesante di silenzio! / aleggia nell’aria la nenia della morte / Da queste pietre, grigie pietre / da ogni rovina, dalle cornici infrante, / esala disperazione di sangue e lacrime / Il mio spirito s’impiglia nel filo spinato / E la mia anima s’aggrappa alle sbarre, / prigioniera in casa nemica! / Chi sono? Nessuno! Tu chi sei? Nessuno! / Voi Sinti chi siete? Nessuno! Solo ombre, / nebbia! Nebbia che per abitudine è rimasta / Prigioniera della più grande infamia / Della storia dell’uomo!».
La mendicante dei sogni
di Paula Schöpf
«È finita la storia dei Sinti / I violini tacciono / Le chitarre non hanno più anima / Le giovani donne non danzano più, / non hanno più piedi. / I fuochi si sono spenti / Gelida è la notte / La nebbia ha dissolto i cuori dei Sinti / La terra si è dissolta col loro sangue / Non ci sono più carrozzoni nella verde periferia / né violini innamorati / né fiori nei bruni capelli / non ci sono più capelli bruni. / Oggi una carovana si è accampata / alla porta del paradiso».
Inno gitano in ricordo del genocidio compiuto nei confronti di Rom e Sinti dalla furia nazista durante la Seconda Guerra Mondiale – Djelem Djelem musica Gitana
Lascia un Commento