Scrittrici e migranti - Vivono nel nostro paese e hanno pubblicato libri in lingua italiana. Sono maggiormente le donne provenienti dall’Europa Centro-Orientale
Cristina Carpinelli Venerdi, 01/07/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2016
La letteratura migrante è un’occasione di costruttiva reciprocità. Allo stesso tempo, decostruisce una visione etnocentrica del mondo, consentendo di rifuggire dalle secche di una mortifera autoreferenzialità e di aprirsi al rinnovamento imposto dalla storia. Essa traccia il sentiero di uno scambio autenticamente paritario fra culture diverse. Non si limita, infatti, a rielaborare criticamente in forma artistica i processi relativi al passato, né a descrivere quelli di creolizzazione tuttora in svolgimento al livello mondiale, ma offre, altresì, una speranza nuova per il futuro, alimenta le ragioni dell’utopia, in vista di un concreto orientamento sul fronte dell’incontro interculturale.
I migrant writers provenienti dall’Europa Centro-Orientale e Sud-Orientale hanno iniziato a pubblicare in lingua italiana dalla seconda metà degli anni Novanta. Alcuni di loro sono arrivati in Italia prima ancora del crollo dell’Urss, della caduta del muro di Berlino e dei diversi regimi comunisti dei paesi che avevano fatto parte dell’orbita sovietica (inclusi la Romania di Nicolae Ceauşescu e l’Albania di Enver Hoxha). Tuttavia, molti di loro sono arrivati in Italia dopo, nel corso degli anni Novanta, con i grandi flussi migratori dall’Est. Sono emigrati a seguito di crude realtà di guerra, oppressione e sfruttamento, o di povertà sperimentate sulla propria pelle nei loro paesi d’origine. Si pensi, soltanto, al peso che ebbe sui flussi migratori dall’Est, il conflitto nei Balcani, o la trasformazione delle economie dei paesi ex-comunisti da pianificate a economie di mercato, con l’uso di ricette neo-liberiste che spinsero milioni di individui sotto la soglia assoluta di povertà. La gran parte della produzione letteraria in lingua italiana di questi ultimi scrittori migranti appartiene agli anni Duemila.
L’attività principale di lavoro di tutti questi scrittori non è quella di romanzieri, poeti o prosatori (sono, in genere, mediatori culturali, traduttori, educatori, ecc.). L’attività letteraria coincide più sovente con la professione primaria tra i migrant writers, che vivono in Italia già da alcuni decenni. Volendo tracciare un loro “identikit”, possiamo affermare che questi scrittori/letterati sono, di solito, in possesso di un livello medio/alto d’istruzione e sono in gran parte donne. Ecco perché in questo articolo ci concentreremo sulla produzione letteraria femminile.
In via convenzionale possiamo identificare due gruppi di migrant women writers: Un “primo” gruppo, non più giovane (nato tra gli anni Trenta e Cinquanta), arrivato in Italia prima del crollo del comunismo, e un “secondo” gruppo (nato tra gli anni Sessanta e Ottanta) emigrato nel periodo in cui andavano consolidandosi nei paesi d’origine società post-comuniste, o a seguito della dissoluzione della Jugoslavia.
Fanno parte del “primo” gruppo, la scrittrice e poetessa ebrea ungherese Edith Steinschreiber Bruck [1932], che si stabilisce in Italia nel 1954, dove conosce Montale, Ungaretti, Luzi, e dove stringe amicizia con Primo Levi, che la sollecita a ricordare la Shoah. Tra le scrittrici migranti, Edith Bruck è considerata l’antesignana della letteratura testimoniale sulla Shoah; la traduttrice e mediatrice culturale, originaria del Montenegro, esperta di cultura balcanica e rom, Nada Strugar [1943], che vive in Italia (Brescia) da oltre vent’anni; la croata Vesna Stanić [1946], autrice di poesie, racconti e saggi. Trasferitasi a Roma negli anni Settanta, oggi vive e lavora a Trieste; la scrittrice slovacca Jarmila Očkayová [1955] arrivata in Italia nel 1974. Figlia di due genitori dissidenti, sostenitori di Alexander Dubček (interprete di una linea politica anti-autoritaria definita “socialismo dal volto umano”), è stata testimone durante la sua adolescenza di quella feconda stagione politica che fu la Primavera di Praga, stroncata nell’agosto del 1968 dall’occupazione del paese da parte dei carri armati sovietici; la scrittrice croata Sarah Zuhra Lukanić [1960] trasferitasi in Italia (Roma) nel 1987, vincitrice con la raccolta di racconti Rione Kurdistan del premio letterario “Mare nostrum” dedicato alla cultura migrante (Viareggio, 6-7 ottobre 2006).
Benché questi due gruppi di migrant women writers abbiano caratteristiche proprie, entrambi hanno condiviso uno stesso percorso di emancipazione letteraria che li ha visti impegnati nella costruzione di una scrittura “nuova” nello stile e nei contenuti, e che si è trasformata in un lasso di tempo relativamente breve da letteratura legata all’immigrazione (spesso di tipo autobiografico):
letteratura di testimonianza o di denuncia della condizione drammatica dell’immigrato, delle difficoltà di quest’ultimo a inserirsi nella società italiana e dei pregiudizi di cui è spesso vittima, o descrizione delle strategie di sopravvivenza adottate nei paesi d’accoglienza. Si pensi, al riguardo, al romanzo Voglio un marito italiano (Il Punto d’Incontro, 2006) della scrittrice ucraina Marina Sòrina[1973], con il quale l’autrice sfata il luogo comune secondo cui le donne dell’Est europeo sarebbero delle avide ammaliatrici pronte a sedurre e ad accaparrarsi un marito italiano, per acquisire la cittadinanza e poi fare i propri comodi;
a racconto delle proprie origini, o a letteratura sulla storia, cultura e tradizioni del proprio paese d’origine;
es: il libro Il sapore della mia terra (Angolo Manzoni, 2006) della romena Valeria Mocanaşu [1959], in cui quest’ultima racconta la sua infanzia trascorsa in un villaggio rurale della Romania comunista; il libro Rosso come una sposa (Einaudi, 2008) con il quale l’albanese Anilda Ibrahimi [1972] approda alla scrittura italiana. È una saga familiare (con qualche spunto autobiografico), attraverso cui l’autrice percorre la storia dell’Albania, dalla sua indipendenza ai nostri giorni, attraverso gli occhi e la vita di diverse generazioni di donne di una famiglia nel profondo sud albanese; la raccolta delle favole popolari di Serbia e Montenegro La cesta del principe (EMI, 2006) di Nada Strugar o Il re del tempoe altre fiabe slovacche di Pavol Dobšinský (a cura di Jarmila Očkayová, Sellerio Editore, 1988)
infine, a testi significativi del patrimonio letterario italiano con l’abbandono dei temi classici dell’immigrazione o del rimpianto per la propria terra, per affrontare, invece, temi universali: l’amore, la morte, la solitudine, la giovinezza, ecc.;
es: il romanzo “sull’amicizia e la morte” Verrà la vita e avrà i tuoi occhi (Baldini Castoldi Dalai, 1995) di Jarmila Očkayová. L’autrice mostra attraverso le sue protagoniste, Stefania e Barbara, che anche guardando il mondo da angolazioni completamente opposte si può riuscire a comporre un rapporto umano: metafora dell’incontro/dialogo con l’altro/a; il “romanzo d’amore e di guerra” L’amore e gli stracci del tempo (Einaudi, 2009) della scrittrice albanese Anilda Ibrahimi, con il quale l’autrice abbandona la storia e i ricordi del proprio paese per regalarci, invece, un intenso romanzo d’amore e di guerra ambientato nei Balcani degli anni Novanta. Il libro racconta le peripezie di Ajkuna (kosovara di etnia albanese) e Zlatan (serbo), due giovani innamorati che vivono a Pristina, capitale del Kosovo, separati dalla guerra. Durante la loro forzata separazione, entrambi hanno come unica risorsa il pensiero di potersi un giorno riabbracciare e insieme riprendere la loro esistenza da dove era stata così bruscamente interrotta. Ma la guerra non lascia inalterate le vite di chi l’ha attraversata. Quando dopo dieci anni si ritroveranno, niente corrisponderà più alle loro aspettative e ai loro desideri. La guerra si è portata via tutto il loro futuro da vivere insieme; il romanzo Le lezioni di Selma (Libri bianchi, 2007) di Sarah Zuhra Lukanić. Le lezioni cui si allude nel titolo di quest’ultimo romanzo sono date da una donna ebrea colta, sposata con un medico musulmano che, confinata in casa sotto il controllo dei militari serbi nella Sarajevo sotto assedio, rifiuta la legge dell’odio e vi oppone quella dell’accoglienza, mantenendo il dialogo con chi improvvisamente è diventato il ‘nemico’; Cercasi Daedalus disperatamente (Tracce, 1997) della croata Vera Slaven [1971] e, ancora, il romanzo La città dei tulipani (Tufani, 2005) della romena Ingrid Beatrice Coman [1971]. Ambientato in Afghanistan, è una storia di ribellione femminile agli orrori della guerra. Infine, il romanzo Il paese dove non si muore mai (Einaudi, 2005) della scrittrice albanese Ornela Vorpsi [1968]. La Vorpsi si concentra sulla condizione femminile in Albania e smaschera i due oppressori delle donne: la società patriarcale e il partito comunista rumeno di Nicolae Ceauseşcu.
(prima parte - continua)
* Questo articolo è la sintesi di un intervento alla Tavola Rotonda “Fenomeni sociali e produzioni letterarie migranti” (Carroponte di Sesto San Giovanni - 2 giugno 2016), promossa dall’Assessorato Pace e Cooperazione Internazionale del Comune di Sesto San Giovanni (MI).
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