CULTURA&FUTURO, ADDIO/5 - Una lettura al femminile della cultura ci può aiutare a capire perché questo settore è preso così poco in considerazione nelle strategie politiche pubbliche
Giovanna Badalassi e Stefania Saltini Mercoledi, 28/05/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2014
Una recente ricerca ha stimato che la cultura in Italia ha un peso sul PIL di 36 miliardi, che potrebbe salire a 70 miliardi con una politica attenta, facendo aumentare gli occupati del settore da 470mila addetti attuali (il 2% del totale) a oltre un milione. Nonostante simili potenzialità, nel nostro paese la cultura è storicamente molto trascurata dalle politiche pubbliche.
Perché questo settore, assieme al turismo, non è considerato prestigioso e strategico, dato il patrimonio artistico e culturale di cui gode l’Italia? Se, ad esempio, l’ICT negli USA gode giustamente di ogni attenzione poiché rappresenta il settore economico di punta di quel paese, perché la cultura, così preziosa e potenzialmente redditizia per l’Italia, non lo è altrettanto per noi?
Dietro a una simile sottovalutazione politica vi sono certamente numerose ragioni. Tra queste, un punto di vista spesso ignorato è quello relativo alla prospettiva di genere, che aiuterebbe invece a capire molti aspetti di questo problema e a svelarne alcune contraddizioni.
Ad esempio, un primo paradosso è che in un paese maschilista come il nostro per sviluppare un settore strategico come la cultura occorrerebbe investire ingenti risorse nell’attività di cura, che rappresenta un valore e una dimensione soprattutto femminile.
Si parla in questo caso infatti di cura e attenzione per le persone (l’accoglienza nel turismo, nei musei, negli alberghi, nei teatri, l’organizzazione di eventi culturali, l’istruzione dei ragazzi nelle scuole), ma anche di cura per le “cose”, per il nostro patrimonio artistico, ad esempio (il restauro, la conservazione dei beni architettonici, la manutenzione dei monumenti e del patrimonio, le biblioteche, le esposizioni,ecc).
La capacità di cura è stata infatti per secoli un’attività femminile non remunerata, che solo in età moderna è stata in parte trasformata in lavoro pagato. Questo connotato storico di gratuità, che anche le professioni culturali legate alla cura si trascinano in parte dietro, spiega sia il ridotto valore economico che viene ad esse attribuito in termini di remunerazione, sia la scarsa attenzione a livello politico dedicata al settore.
Un’altra riflessione di genere sulle politiche culturali riguarda la possibilità di far crescere il settore riconoscendo le differenze tra donne e uomini in termini di fruizione culturale.
Negli ultimi due secoli vi è stato un significativo aumento delle donne tra i fruitori (e consumatori) di cultura. Se per secoli questa è stata pressoché riservata agli uomini, pure di un certo livello di censo, a partire dai primi dell’800 la situazione si è invece capovolta. Non solo il nostro paese ha conosciuto l’istruzione di massa, ma le donne hanno oggi raggiunto la parità con gli uomini nel livello di istruzione e, nelle generazioni più giovani, lo hanno anche superato.
Una preparazione che le ha fatte diventare in poco più di un secolo forti fruitrici di cultura, anche disposte a viaggiare e a spendere per alimentare questo interesse. Le donne sono infatti presenti in modo equivalente agli uomini, se non in misura superiore, in numerose manifestazioni di cultura: nel 2011 hanno frequentato musei il 29,7% delle donne e il 29,7% degli uomini, sono andati a teatro il 24% delle donne e il 19,7% degli uomini, ai concerti di musica classica il 10,2% delle donne e il 10% degli uomini, hanno visitato siti archeologici e monumenti il 22,4% delle donne e il 23,5% degli uomini. Le donne leggono inoltre più degli uomini: le lettrici, infatti, sono il 53,1% rispetto al 40,1% dei lettori; tra i 20 e i 24 anni la quota di lettrici sfiora il 65%, mentre quella dei lettori si attesta al 41,3%.
Un approfondimento di Istat (2011) mette inoltre in evidenza dati interessanti sui consumi culturali delle giovani donne italiane tra i 18 e i 29 anni: leggono di più libri nel tempo libero (il 64,4% dei casi contro il 41,3% dei coetanei); visitano più musei, mostre e monumenti (39,6% delle giovani visita nell’anno musei e mostre, il 27,6% monumenti, con una differenza rispetto ai coetanei di 8 punti in più nel primo caso e 4 nel secondo); vanno di più a teatro (25,8% contro 19,5% dei coetanei); dati analoghi si rilevano anche per la radio, seguita dal 77,1% delle giovani contro il 72,8% dei loro coetanei.
Queste differenze hanno cominciato negli anni ad essere prese sempre più in considerazione dalle imprese culturali, che hanno diversificato le proposte editoriali, nonché quelle teatrali e cinematografiche.
Se a livello di marketing le imprese sono dunque diventate ben consapevoli di tali differenze, non altrettanto si può dire nelle scelte strategiche di politica culturale, che potrebbero invece creare valore aggiunto e ricchezza prendendo nella giusta considerazione questo approccio.
Ad ostacolare una maggiore presa di coscienza del dato di genere nelle politiche culturali vi è certamente la questione relativa all’empowerment nelle cariche di potere: se le donne sono la metà e più degli utenti di cultura, non altrettanto si può infatti dire per chi, a vario titolo, si trova in posizioni manageriali e di vertice nel settore, o comunque ha il potere di produzione culturale. La prevalenza maschile, in questi casi, è ancora evidente. Più raramente, infatti, le donne occupano posizioni di elevata responsabilità all’interno delle grandi istituzioni culturali e tali disuguaglianze comportano spesso anche differenze in termini di remunerazione.
Anche le carriere artistiche non sono esenti dalla persistenza di forti disuguaglianze tra uomini e donne. D’altro canto, il ruolo svolto dalle donne nella creazione, passando attraverso l’apprendimento e la professionalizzazione nei settori culturali, solleva la questione della differenza di genere, della ripartizione del lavoro tra uomini e donne e delle relative rappresentazioni e immagini legate allo stato della società, alle sue strutture e alla sua storia.
Si viene così inevitabilmente a creare un divario tra i valori e le preferenze dei fruitori/consumatori di cultura, equamente divisi tra donne e uomini, e quelli filtrati e percepiti da decisori del settore, in larga parte uomini. Una maggiore attenzione ad una equa presenza di genere anche a livello di ruoli e cariche di potere apporterebbe nuove prospettive e benefici, anche in termini economici.
Anche per la cultura, dunque, come per numerosi altri settori, un cambio sia di valori e di prospettiva, anche favorita da un ricambio della dirigenza in senso femminile, permetterebbe di maturare una più lucida sensibilità politica e amministrativa, favorendo così una crescita sociale ed economica a vantaggio di tutta la collettività.
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