Una storia di amicizia che insegna ad apprezzare l'invisibile
È l'alba del Novecento. Il romanzo inizia nel civico 31 di via degli Incappucciati, di Ibla. L’atmosfera è livida e sporca di lutto e di un silenzio palpabile. Il paese ha appena perduto il dottore Filippo Albanese, storico farmacista che con i suoi rimedi aveva costituito per tutti una figura imprescindibile: non solo medico ma anche guaritore dell'anima, nonché custode dei segreti della gente con un «riserbo [a dir poco] monastico», così inizia il nuovo romanzo corale di Costanza DiQuattro, Arrocco siciliano (Baldini+Castoldi).
Il dottor Filippo Albanese è stato un punto di riferimento. La sua farmacia non era stata «solo il luogo dove trovare il rimedio al dolore, le cure adatte per attenuare le sofferenze». Ma, «il posto ideale per chiunque avesse un dubbio, un timore, qualcosa da confessare. Molto più di una chiesa, per la quale in molti nutrivano una scettica avversione. La farmacia Albanese, era diventata il ritrovo di una comunità e il farmacista la persona più affidabile cui raccontare i propri segreti».
A sostituirlo da Napoli, Antonio Fusco, un giovane senza un passato ben precisato.
Con un sorriso beffardo, oltre ad un fisico prestante, Antonio Fusco ‒ giovane napoletano con una laurea in Farmacia e «con la spocchia dei vincenti, la sufficienza degli arroganti e la flemma dei risoluti» ‒ si è presentato in Sicilia, dopo aver ricevuto il telegramma della vedova Albanese, portando con sé camice, farmacopea e qualche di libri di chimica. Nulla più.
Vaghe e confuse sono le motivazioni che lo spingono in Sicilia.
«La linearità solo esteriore di Antonio, la placida serenità dei modi, quel sorriso sempre aperto e disponibile, facevano continuamente a pugni con il suo animo in tumulto, con la fame di futuro e la sete di rivalsa. Era lacerato dai sensi di colpa, dai rimpianti e da una continua ricerca di stabilità. Era un uomo solo e nella solitudine l’errore diventava compagno. La vertigine del pericolo lo faceva sentire vivo e per questa ragione si eccitava nelle situazioni difficili», così lo presenta laDiquattro.
Accolto dalle ostilità dei residenti, lentamente Antonio Fusco si fa apprezzare. Tanto da incontrare e intrecciare la sua storia con quella più complessa di altri personaggi, come i baroni locali, i Crescimanno.
Il neo farmacista del paese, coi suoi rimedi galenici, diventa, prima, una speranza per i Crescimano, poi, un guru ambiguo, sempre più parte del loro nucleo familiare dove la complicità si trasforma in trasgressione, ma anche in estremo tentativo di salvezza. Antonio Fusco impara a vedere i vizi che la famiglia tende a nascondere ai più. Fusco diventa però a sua volta una vittima. Perché soccombe alle sue fragilità: il sesso e i debiti di gioco, tanto da trovarsi vendere farmaci proibiti ed entrare così nel mirino di usurai, quanto nell'ira dei mariti gelosi.
Il romanzo si rivela una partita personale del protagonista col suo destino. È una storia di amicizia che insegna ad apprezzare l'invisibile. Il gioco degli scacchi, caro al figlio del barone Crescimanno quanto al farmacista Fusco, diventa un escamotage narrativo per l'autrice. I giochi di eredità nobiliari tra debiti, suicidi e paure si trasformano in un gioco assai amaro. Federico Crescimanno e Fusco sembrano due figure isolate dal mondo, due corpi estranei che finiscono per proteggersi a vicenda. Come se non potessero fare a meno l’uno dell’altro.
Antonio Fusco e Federico Crescimanni è come se fossero «due anime ferite che cercavano un appiglio», due anime di cui nessuno avrebbe potuto dire chi fosse colui che sorreggeva l’altro, ma è certo che il primo inizia a riconoscersi nel secondo, di cui ammira l’intelligenza, la serenità e l’ingenuo entusiasmo.
L’arrocco siciliano del titolo non si riferisce solo al gioco degli scacchi o a un modo di dire, ma a uno stile di vita e l’autrice lo spiega attraverso le parole del suo protagonista quando sostiene che «tutta questa terra è un continuo arrocco, anche questo paese è così arroccato così come la gente che ci vive e che si arrocca sulle proprie idee e si rifiuta di abbandonare le proprie posizioni. Sta tutto lì, sulla torre del castello; ci stanno i sogni e le speranze ma anche i risentimenti e le vendette. Sono ansiosi di proteggere il loro re senza capire che quel re forse è già morto».
La scacchiera è un’altra immagine attraverso la quale si delinea il labirinto, presente nel precedente romanzo Donnafugata della DiQuinto. Questa è metafora ‒ espressione della dialettica incessante dell’universo e dell’eterna contesa tra la vita e la morte ‒ è uno dei temi che percorre anche le altre opere della scrittrice ragusana Donnafugata e Giuditta e il monsù.
Il finale del romanzo fa capire come il protagonista ha scelto di proteggere le debolezze altrui e, di conseguenza, anche le proprie.
La scrittrice siciliana crea, come ha fatto dal suo primo romanzo, Donnafugata, un affresco vivido e lucente nel quale la Sicilia è terra agrodolce di redenzione e di vendette. Un universo personaggi che popolano la fine dell’Ottocento, sfaccettato e colorito.
Ciò che colpisce oltre la storia è l’idea della Sicilia e delle sue donne, quando la scrittrice afferma che «Io non sono convinta che le donne siano mai state subalterne rispetto agli uomini. La mia Sicilia, e la Sicilia in generale, ha una matrice matriarcale. Una forza unica che è donna in tutte le sue sfaccettature. Le mie donne sono colonne disposte a reggere il peso di uomini immensi ma spesso vittime delle loro debolezze».
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