Mercoledi, 10/09/2014 - Non è rituale premettere che è impossibile dar conto di tutto quello che è stato detto e condiviso nelle tre giornate di lavoro del seminario annuale di Officine del pensiero femminista ad Altradimora, quest’anno focalizzato sull’intreccio tra nonviolenza e femminismo, quindi sulla trama che unisce due visioni e due pratiche tra le più significative nella storia umana.
Grazie a Thomas Guarino avremo la possibilità, su radiodelledonne.org di ascoltare gli interventi di facilitazione, e spero che oltre a me e a Laura Cima, che ne ha già scritto sul suo blog, altre e altri vogliano mettere insieme suggestioni e pensieri da collettivizzare.
Comincio rimandando al post che ho scritto prima del seminario, che trovate qui http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/03/femminismo-perche-e-legato-alla-nonviolenza/1106621/
A ciò aggiungo che la scelta del tema rappresentava un rischio, dato che nei movimenti politici, (compreso quello femminista), la questione della nonviolenza non è mai stata al top delle priorità nelle discussioni. In parte perché è evidente il rischio di ricadere nello stereotipo patriarcale secondo il quale le donne sarebbero naturalmente nonviolente o comunque meno violente degli uomini per motivi fisici e psicologici, e in secondo luogo perché grande è la confusione tra violenza, forza e aggressività, un mix che spesso giustifica reazioni e atteggiamenti che vengono relativizzati a seconda che questi siano agiti da chi sta dalla parte della (presunta) ragione o del (presunto) torto, in una manichea riproposizione del motto il fine giustifica i mezzi.
Al seminario ho raccontato che molte donne, saputo dell’appuntamento, mi espressero il rammarico per non potervi partecipare pensando che fosse un’occasione per parlare di violenza di genere, e un gruppo di giovani pensatrici, quando proposi loro di scrivere un contributo per Marea sull’argomento, chiarendo che non si trattava di ragionare sulla violenza sessuale, ma appunto di intreccio tra pensiero femminista e nonviolenza, rinunciarono dicendo che ‘non avrebbero saputo che dire’.
Un vuoto di conoscenza interessante da prendere in considerazione.
Ho scelto di cominciare, per la mia facilitazione, con due minuti del bellissimo film di Filippo Vendemmiati dedicato alla storia di Pietro Ingrao, dal titolo Non mi avete convinto, nei quali l’anziano leader comunista eretico dice che la politica, che tanta parte è stata della sua vita, non può rispondere alla profonda domanda umana sul chi siamo: la politica, dice Ingrao, ci parla di cosa e di come consumiamo, ma non offre risposte sul sé.
Mi sono chiesta se il femminismo lo possa invece fare, o se quantomeno offra la possibilità di tratteggiare un orizzonte nel quale trovare modo di farsi questa domanda e la risposta è sì, a partire proprio dall’affermazione che il privato è politico.
Femminismo e nonviolenza come visioni e come pratiche di relazione, perché al centro c’è il quotidiano, la sua cura e la scelta responsabile delle pratiche da attuare, sono strumenti che possono, se messi al centro dell’agire politico, creare nuove modalità di vivere e dare anche risposte alla nostra domanda di senso. Per me così è stato.
L’utilità di questa discussione, e il fatto di scegliere di dare parola anche ad alcuni uomini che in vario modo in questi anni hanno lavorato per il cambiamento di paradigma rispetto alle regole patriarcali è stata subito chiara a partire dalla riflessione di Alberto Zoratti, ambientalista ed esperto di commercio equo.
Il suo contributo, dal titolo Il coraggio di dire no ha messo al centro una visione laterale e creativa del diniego, nella quale l’opporsi è anche fare in modo, collettivamente, di dare più spazio ai sì, di attivarsi costruendo invece che distruggendo. Alberto ha raccontato come un no (rischioso e coraggioso in tempi di crisi) rispetto a una commessa lavorativa, pronunciato per motivi etici, si è trasformato in una crescita collettiva per i lavoratori che hanno rinunciato alla commessa, e contemporaneamente ha fatto sì che la loro scelta diventasse un volano per altri lavori, arrivati da aziende che hanno apprezzato la loro decisione. Umanizzare ogni scelta, adottando quindi pratiche di inclusione e di nonviolenza, è possibile anche con chi sta dall’altra parte, nella visione della politica come barricata. Zoratti ha condiviso il percorso dell’occupazione di una struttura dismessa a Pisa, nella quale legalità, illegalità e legittimità sono state considerate dal punto di vista del guadagno globale, nel rispetto e nell’attuazione del dettato costituzionale, fino a creare relazioni feconde anche con chi, la polizia, storicamente viene vista dai movimenti come una nemica.
Un’attenta ricostruzione del valore centrale della pratica nonviolenta sindacale dello sciopero è stata portata al seminario da Alessandro Bongarzone, sindacalista della Cisl, uno degli oltre 70 uomini coinvolti, da un anno e mezzo, nel laboratorio di teatro sociale per uomini di Manutenzioni - Uomini a nudo, la piece tratta dal libro Uomini che odiano amano le donne.
La visione del sindacato e delle pratiche di lotta Alessandro la comincia con la narrazione di come sia stato difficile far passare, dentro al mondo del lavoro, l’affermazione che il mondo è biverso, non universo, (quindi maschile) perché fatto da donne e da uomini: è stato nel momento in cui si cominciò a parlare di riproduzione, non più solo di produzione, che il sindacato ha preso finalmente atto che non solo di uguaglianza, ma anche di differenza bisognava occuparsi, in un intreccio tra privato e politico che ha visto il sindacato crescere a partire dalla questione della riduzione degli orari di lavoro e del lavoro notturno.
“Usare gli strumenti del padrone per smantellargli la casa’, ha sostenuto Bongarzone, non ha portato da nessuna parte. Quando abbiamo ottenuto il massimo dei risultati lo abbiamo fatto mettendo a frutto le nostre idee, producendo contro cultura e contro informazione, organizzando speranze collettive e mettendo al centro le persone. Ma, soprattutto, lo abbiamo fatto con le sole armi che don Milani mi consente: lo sciopero e il voto.”
Anche Giancarla Codrignani, storica figura del femminismo e della nonviolenza italiana, ha parlato di mondo multiverso, esortando le generazione più giovani a non avere paura di guardare avanti, usando sì la storia ereditata ma sperimentando nuove forme e linguaggi, prevenendo la guerra affrontando i conflitti, dando loro nome e spessore, per trasformare quello che può diventare distruttivo in creatività e condivisione. “Noi come donne siamo chiamate il sesso debole, ma in questo momento, nel corso del tempo e della storia che ha visto nascere la fionda e oggi arrivare al drone, ci possiamo rendere ben conto che siamo tutti deboli e tutti umani. Per avere maggiore uguaglianza dobbiamo andare oltre il neutro che è una gabbia, provando di più a usare le istituzioni, popolandole e cambiandole. Se non lo faremo resteremo, come donne, maggioranza elettorale ma minoranza nel potere.
Rosetta Bertini, del centro Medea di Alessandria ha condiviso la difficoltà di non cedere al rancore verso chi fa violenza alle donne, e quindi di esercitare la difficile e necessaria arte nonviolenta di separare e governare la reattività dalla pratica dell’ascolto, per aiutare l’uscita dalla violenza anche di chi l’ha fatta: i maltrattanti e i violenti.
Cristina Obber, autrice di Non lo faccio più, la prima inchiesta italiana sulla violenza di gruppo dei giovanissimi, si è detta convinta che è sulla responsabilità individuale che si gioca tutto, perché non c’è mai scelta dentro alle azioni del branco: i giovani violenti non riconoscono la loro responsabilità nella violenza di gruppo. Se avremo un mondo meno violento questo sarà solo se, dalla famiglia in poi, si comincerà a insegnare la nonviolenza e l’etica della responsabilità fin dai primi anni di vita, ammettendo che la famiglia non è il nido romantico e protettivo che ci si ostina a dipingere, ma è addirittura il luogo più pericoloso e mortale per donne e minori.
Laura Guidetti di Marea e attiva anche nella Rete di donne per la politica riprende quanto riportato qui http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/31/quote-rosa-chi-ha-paura-dellequa-rappresentanza-di-genere-nelle-istituzioni/1077953/, per segnalare la necessità di ridare senso alla politica, che ormai il più delle volte è solo un guscio vuoto. Al binomio femminismo e nonviolenza Laura aggiunge la parola bilanci (tema al quale anche Marea ha dedicato un numero): senza fare il bilancio delle proprie azioni non siamo in grado di tesaurizzare e fare memoria della nostra azione politica, dissipando così energie, pratiche e ricchezze collettive.
A lei si è ricollegata Laura Cima, http://www.lauracima.it/lauracima_it/potere-nonviolenza-discussioni-donne-non/ che con Paola Lanzon, presidente del Consiglio Comunale di Imola, ha denunciato come il femminismo il Italia sia in larga parte mancante di una coraggiosa assunzione di responsabilità dentro e fuori l’ambito istituzionale per modificare alla radice significato e pratica del potere: è ancora troppo diffusa la convinzione che sia legittimo che una ingiustizia possa essere ripagata dalla violenza. Lanzon ha proposto di aggiungere a femminismo e nonviolenza anche la parola potere, perché oggi per le femministe la questione del potere è fondamentale. La violenza spesso è agita per contrastare il potere, combatterlo e cambiarlo, e solo pratiche nonviolente quotidiane estese e pervasive anche dentro le istituzioni possono scongiurare guerra e violenza.
Giovanni Fontanieri, ispettore di polizia che si occupa di violenza domestica e anche lui ‘attore’ in Manutenzioni - Uomini a nudo ha lanciato l’allarme sulla forte sottovalutazione del fenomeno della violenza e quindi l’assenza di cultura nonviolenta, dalla famiglia alla scuola alle istituzioni.
”Tocco con mano che di violenza si parla tanto solo in superfice ma non di quella in famiglia: quella ci scivola addosso, la sentiamo nei tg e ne leggiamo sulla stampa, ma non entra dentro, non scalfisce l’indifferenza. I femminicidi in Italia sono attestati a 120/140 all’anno, e i numeri non calano”.
Rosangela Pesenti ricorda che nel film In my country (visto assieme alla sera di venerdì come spunto al dibattito) la narrazione della storia individuale fatta dai protagonisti passa attraverso la sola nominazione dei padri, e che questa violenta cancellazione e rimozione del femminile sta alla base della violenza e del processo di incapacitazione e vanificazione delle donne, e quindi del femminile del mondo. Il femminismo legato alla nonviolenza è la pratica che può modificare alla radice il nostro modo di stare insieme, uomini e donne sul pianeta.
A tutte le persone che hanno partecipato alle giornate seminariali non è sfuggito che la realtà nella quale viviamo è lo specchio di un paradosso: a dispetto della finzione culturale non è l’amore a unire, ma l’odio: ed è questo, su piccola come su vasta scala su cui si deve agire.
Se infatti è giusto sostenere, con Christa Wolf che ‘tra uccidere e morire c’è una terza via: è vivere’ dobbiamo interrogarci sullo spazio vitale, nel quale, specialmente tra le giovani generazioni, la tendenza è quella di essere affascinati dalla violenza, se manca l’educazione all’affettività, al rispetto e alla nonviolenza. La violenza affascina ed eccita per il suo aspetto pulsionale ed erotico, la nonviolenza è pazienza, collaborazione e protezione, e va quindi erotizzata per diventare seduttiva: connetterla con il femminismo significa lavorare sullo stereotipo della femminilità e offrire anche al maschile la possibilità di identificarsi e di trovare uno spazio trasformativo.
Uno spazio di gioia e di fatica, che tra le altre Maria Dalmeida del gruppo Archinaute ricorda essere prezioso, ma non infinito e sempre disponibile.
Nella sua esperienza di femminista ci sono state anche le occasioni mancate, quando si è pagato caro, tra donne, il non aver subito detto quei ‘no’ relazionali che avrebbero, generando un conflitto ancora dipanabile, permesso se non la trasformazione positiva e la crescita, almeno di non distruggere, soffrire e far soffrire.
Mentre la violenza è sempre efficace, veloce, offre un risultato immediato, la nonviolenza è un percorso continuo di scelta, responsabilità e cura, così nel privato come nel collettivo.
Per me aver messo al centro del mio percorso, e di quello di molte e molti, le pratiche nonviolente ha significato mutare l’orizzonte dell’agire sin dal primo momento: significa smettere di difendere e cominciare a proteggere. Significa non attestarsi sulla difesa di ciò che può essere minacciato ma agire, per tempo, con creatività, la protezione di quel tanto che, ricevuto dalle madri e dalle sorelle maggiori, abbiamo avuto come libertà e opportunità, visioni e orizzonti da vivere e allargare, popolandoli con i desideri e disegnando nuovi modi di essere felici.
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