Cibo nemico/2 - Carla Simeoni, 43enne di Pomezia che per oltre venti anni ha vissuto nell'inferno dell'anoressia, condivide con NOIDONNE la sua esperienza
Marta Mariani Venerdi, 03/04/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2015
Carla, secondo te che hai vissuto questa patologia, su quali fragilità psicologiche poggia il disturbo dell'anoressia? Come comincia?
L'anoressia è una patologia terrificante, sottovalutata, trascurata, su cui mi posso ormai permettere di dire che c'è tanta disinformazione. Questo disturbo alimentare può cominciare da atteggiamenti anche molto semplici: digiuni di qualche giorno, forme di conflittualità che si evidenziano proprio a tavola, piccole ossessioni che tendono a radicarsi. Tutto comincia dalla mente. Mi ricordo che per anni e anni non facevo altro che controllare le cose che ingerivo. Sentivo potentissimo, dentro di me, il bisogno di scomparire, di dissolvermi, consumarmi poco a poco. Per me l'anoressia è stata una malattia legata soprattutto all'indipendenza e al distacco dai miei genitori. Durante l'adolescenza avvertivo una insicurezza che intaccava l'autostima, la fiducia nelle mie capacità. Mi sentivo fragile, inadeguata, indegna, incapace di affrontare le sfide della vita. E mi sembrava che controllare il cibo, digiunare, sopportare la fame, la sofferenza, la fatica fisica delle privazioni mi desse la sensazione di essere forte. Quando vedevo che riuscivo a non mangiare per settimane pur svolgendo regolarmente il nuoto, gli impegni, le attività più varie, mi sentivo onnipotente. Mi dicevo che ero capace di resistere a tutto.
Prima hai parlato di “ossessioni”. A che genere di ossessioni ti riferisci?
Una prima ossessione è certamente quella di sentirsi grassi. Mi ricordo che una volta, a 19 anni circa, rimasi molto turbata da una insinuazione di un mio amico. Mi chiedeva se fossi ingrassata. Io la presi malissimo. Fu forse quello il momento in cui scoppiò e si manifestò un disagio che certamente era già latente in me. In più, quando sono entrata nel circolo vizioso di questo disturbo mi vedevo sempre grassa (anche quando invece ero uno scheletro di 29 kg in pericolo di vita) pensavo al cibo come ad un “premio” che potevo meritare solo digiunando. Se non mangiavo per tutto il giorno, la sera potevo concedermi magari un gelato. E non senza sensi di colpa. Oltretutto, anche il fatto di meritare il gelato e di sceglierlo diventava una questione davvero spinosa e difficile. Stavo davanti al banco del gelataio anche per un'ora e mezza. Scegliere quali gusti mettere sul cono era ormai una questione di vita o di morte. La preparazione del cibo era come ritualizzata. Era un momento sacro che andava celebrato in un certo modo. Pulire e sbucciare una carota diventava un'operazione davvero maniacale. Tutte le persone anoressiche hanno, è evidente, una tenacia pazzesca, che però è a servizio dell'autodistruzione e che quindi non può portare a niente di buono finché non viene devoluta a vantaggio di se stessi.
Deve essere stato un periodo davvero tragico, di grande solitudine, in cui ti sarai certamente sentita anni luce lontana da chiunque.
Sì. Cinque anni buoni della mia vita li ho passati distesa sul letto. Da sola. Ho perso tutte le amicizie che avevo. E ora, da ex malata, mi rendo conto di quanto possa essere difficile stare accanto ad una persona anoressica. L'anoressia mi ha insegnato molte cose, ad esempio: quanti disagi di carattere psicologico, familiare e sociale si possono riversare sul cibo. Il rapporto con il cibo, infatti, è solo un sintomo, un picco emergenziale di cose ben più grandi. Dietro il mio disturbo c'era un mondo, un mondo difficile naturalmente, fatto di dolore, di “pesi” e difficoltà familiari che io mi sono come sobbarcata e che ho voluto manifestare in questo modo. Oggi, a tutte le persone che si avviano per questa strada sofferta e accidentata ricorderei che chiedere aiuto non vuol dire essere fragili, ma vuol dire rendersi capaci di reagire e superare le difficoltà.
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