Rebibbia, i bimbi uccisi dalla madre e il decisionismo del Ministro Bonafede
Alice Sebesta non doveva essere incarcerata perché la legge lo vieta. Il sistema, di fronte a una tragedia umana di questa portata, dovrebbe interrogarsi con coscienza e civiltà
Martedi, 25/09/2018 - Alice Sebesta, 33 anni, è arrestata per detenzione di droga e il 27 agosto entra nel carcere femminile di Rebibbia insieme ai suoi bimbi di 6 e 24 mesi. Tutti e tre sono accolti nel nido, spazio attrezzato e ben tenuto, in cui sono reclusi altri piccoli con le loro mamme.
Il 18 settembre Alice getta i suoi bambini dalle scale, uccidendoli.
La parola tragedia non riesce ad esprimere il dolore che suscita l’uccisione di due innocenti, difficile trovare espressioni che possano definire l’entità di un dramma generato da una sofferenza immensa e disumana, talmente insopportabile da indurre in una madre un gesto feroce, disperato, incomprensibile.
Era prevedibile? Il sistema carcerario avrebbe potuto impedire ad Alice questo duplice infanticidio?
Sono domande che né oggi né mai, probabilmente, potranno avere risposte certe e rispettose delle due vite negate e correlate alla gravità del gesto.
È il senso di umana finitezza ad impedirlo: la razionalità e il sentimento ergono un muro di protezione tra la capacità di comprendere e le ragioni che provocano il gesto di una madre che uccide figli suoi e con l’allattamento ancora intimamente parte di lei.
Una manifestazione così estrema della fragilità che abita l’animo umano impone la pietà e invoca il silenzio.
Non così ha ragionato la politica: il ministro della giustizia Alfonso Bonafede il giorno dopo ha sospeso i vertici dell’Istituto di pena, additando come responsabili la Direttrice Ida Del Grosso, la Vicedirettrice Gabriella Pedote e la Vicecomandante della Polizia Penitenziaria Antonella Proietti.
La scure dello Stato si è abbattuta con severità e repentinamente su chi, dentro alle ‘mura maledette’, lavora ogni giorno misurandosi con le difficoltà e le contraddizioni che inevitabilmente nascono nell’incontro/scontro tra le rigidità del sistema e le infinite sfumature delle sofferenze che la prigione infligge. Perché sono tutte diverse le persone detenute; entrando in carcere non perdono le loro peculiarità caratteriali, le origini culturali o il bagaglio del vissuto. Ciascuna è una storia a sé e ciascuna vive la reclusione a suo modo. I regolamenti, le leggi, le circolari non tengono conto delle differenze: sono scritte per le ‘persone detenute’, come se potesse esistere uno standard. Chi, giorno per giorno, è a contatto con loro ha il compito di declinare le neutralità, di spiegare il senso di tanti no, di modulare quanto possibile, di alleggerire il peso delle delusioni, di comprendere quando il filo della resistenza è troppo teso. Il personale è costantemente sull’onda di un moto perpetuo che non consente di aggrapparsi a punti fermi. Ogni gesto, ogni parola, ogni scelta è un viaggio nell’incertezza. Invece le leggi non hanno dubbi, i regolamenti impongono, le circolari prescrivono.
Non conosciamo i dettagli del dramma di Alice, se non attraverso gli articoli pubblicati in cui le sue uniche parole sarebbero state “ora Faith e Divine sono liberi”; però sappiamo che, in base alle norme vigenti, le donne con figli piccoli non dovrebbero stare in carcere ma in strutture dedicate perché, come si sa, il parto e un bimbo piccolo sono fattori destabilizzanti per la donna. Ma le strutture sono insufficienti, gli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri) non riescono ad accogliere tutti i 62 bambini reclusi con le loro mamme. Lo Stato è inadempiente, eppure accusa, decreta, sancisce. Lo Stato punisce chi è obbligato ad accogliere chi in carcere non dovrebbe stare.
Talvolta il rigore è necessario o persino indispensabile, perché le mancanze o le violazioni negli Istituti di pena ci sono.
Nel caso di Rebibbia femminile, carcere indicato come modello avanzato, quello che possiamo affermare tranquillamente e con cognizione di causa dopo 4 anni in cui tutte le settimane e per lunghi periodi teniamo il nostro laboratorio, è che dal 2015 abbiamo visto al lavoro i vertici dell’Istituto e il personale, constatando in modo diretto e 'sul campo' professionalità e umanità. Ci siamo confrontate spesso con la Direttrice e la Vicedirettrice, incontrando apprezzamento e attenzione verso le proposte. La costante apertura a tanti progetti di volontariato che portano dall'esterno opportunità di incontri e scambio, sempre utili alle persone detenute, sono la testimonianza di un approccio che cerca di alleviare il peso della detenzione e di dare un senso ad un tempo altrimenti vuoto.
Di fronte a questo impegno, che abbiamo sempre visto riconfermato anno dopo anno, la durezza della reazione dello Stato con le sospensioni comminate ai vertici dell’Istituto appare incomprensibile e frettolosa, se non addirittura dannosa.
Lo abbiamo toccato con mano molte volte: il carcere è un microcosmo complesso in cui tutto si condensa e si amplifica. Pensiamo con sgomento al clima in cui l’istituto è piombato dopo il gesto di Alice, immaginiamo anche l'angoscia e il senso di impotenza che attraversa l'animo di tutte le persone, operatrici e detenute.
Ci domandiamo anche quale può essere l’impatto di un provvedimento così duro come l’allontanamento dei punti di riferimento nell’Istituto, se non provocare ulteriore instabilità emotiva e nuove incertezze?
Abbiamo sentito la necessità di condividere queste riflessioni sperando di contribuire alla conoscenza della complessità della realtà carceraria, intento che, del resto, ci poniamo con il nostro laboratorio a Rebibbia.
Pensiamo che andare oltre la superficialità e i giudizi sommari è, in casi come questo, l’unico possibile gesto di civiltà.
Tiziana Bartolini e Paola Ortensi
Volontarie con il progetto ‘A mano libera’ di NOIDONNE e Noidonne TrePuntoZero
Lascia un Commento