CULTURA&FUTURO, ADDIO/1 - Spaghetti, mandolino, mafia: siamo ancora visti così, un paese senza regole. Ma esercitiamo sempre una particolare attrattiva. Una conversazione con la scrittrice Melania Mazzucco
Bartolini Tiziana Mercoledi, 28/05/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2014
“Lo scrittore è un grande veicolo della cultura del suo paese perché con i suoi romanzi lo descrive, attraverso le storie che racconta ne narra aspetti particolari, del passato o del presente”. Melania Mazzucco gira il mondo presentando i suoi libri, tradotti in 24 lingue, e il suo è un punto di vista che ha un respiro internazionale. “Con sorpresa e rammarico mi sono resa conto della differenza: in Italia non ci sentiamo minimamente considerati. Infatti non siamo punto di riferimento per commentare fatti politici o di costume. Sono invece interpellati gli opinion maker , che però ragionano sul presente. Devono commentare ciò che accade, mentre accade. Gli scrittori hanno la fortuna di poter lavorare nel tempo, di lasciar sedimentare. Talvolta riescono anche a prevenire tendenze proprio perché possono osservare con un certo distacco”. È accaduto così per il suo ultimo romanzo, ‘Sei come sei’ (ed Einaudi) sul tema - oggi cruciale - dell’omosessualità e delle nuove dimensioni della famiglia. Tornando alla ‘cultura’, parola abusata ma su cui poco si riflette, abbiamo voluto interpellare lo sguardo e la sensibilità di un’intellettuale portatrice di un’esperienza umana e professionale ‘globale’, chiedendole una definizione sintetica. “La cultura è la relazione che c’è fra me, quello che sono, il luogo in cui sono nata o in cui scelgo di vivere, la sua storia e memoria, che è memoria personale e familiare, artistica. È ciò che mangio e la luce con cui mi rapporto. Tutto questo insieme è parte, costituisce, la cultura di un Paese”. Inevitabile chiederle come è percepita la cultura italiana all’estero e se siamo ancora inchiodati alla famosa copertina raffigurante il piatto di spaghetti e la pistola fumante, simboli della mafia e della buona cucina. “Spaghetti, mandolino, mafia… sì, sì sempre. Quando dici Italia dici anche questo e il ventennio berlusconiano ci ha regalato anche altro. Ma l‘Italia è un paese strano, che provoca una doppia percezione. Da una parte c’è lo stereotipo negativo di un Paese pensato sostanzialmente senza regole e senza legge, ma che continua ad esercitare un’attrattiva irresistibile perché accanto offre un sentimento della bellezza. Siamo un’anomalia proprio per questa duplicità, che continua ad affascinare. È un’aura particolare, unica, di cui abbiamo perduto la consapevolezza. Forse dovremmo accettare questa duplicità, che ci rende così speciali. Forse la nostra cultura è questa”. Arriviamo al nodo della crisi attuale, o meglio delle crisi, che stiamo vivendo da anni. Il tunnel di cui non si vede la fine e che non è solo il PIL e il debito pubblico a rendere così buio. Come è successo che abbiamo perduto la fiducia in noi stessi? “C’è stato un collasso totale dell’idea di comunità. L’Italia non è più una sola e abbiamo perduto il sentimento di essere un Paese e di appartenere ad una cultura, appunto. Un individualismo deteriore ha provocato uno sbriciolamento complessivo. Se non c’è più l’Italia, se quello che sei non ti appartiene, come puoi comunicare o trasmettere il bello che hai o che sei?”. Eppure ci sono tanti esempi positivi: dal Made in Italy alle buone pratiche locali. “Ognuno pensa al ‘suo’ pezzetto, magari con successo. L’azienda esporta il proprio prodotto, il comune riesce ad attirare un buon flusso turistico, ma non si fa sistema. Il collasso vero c’è stato quando è arrivato il benessere, che non poggiava su una struttura capace di tenere, in assenza di un’idea dello Stato. È mancata la cultura, appunto. Ovunque nel mondo riscontro un forte attaccamento all’idea del proprio paese, e orgoglio di appartenenza. Questo è un sentimento che non conosciamo. Tra i responsabili vi è certamente lo Stato, nelle modalità in cui si è manifestato agli italiani e poi la politica, percepita come una sorta di associazione gangsteristica...!” Un’analisi certo cruda, e difficilmente contrastabile, che sollecita una riflessione sulle possibili vie d’uscita e sugli scenari futuribili. “Forse dobbiamo ripartire dal piccolo, visto che l’unico sentimento di appartenenza rimasto è quello del campanile. Un campanilismo che potrebbe essere reinterpretato positivamente”. Da queste considerazioni non può essere esclusa la scuola, luogo che hai modo di frequentare spesso. “La cultura in Italia è associata al titolo di studio, all’università. Poiché ha accesso allo studio prevalentemente la classe agiata, si pensa che la cultura sia appannaggio di chi ha il privilegio di studiare. Così non è all’estero, dove tutti leggono tutto. Non a caso noi leggiamo pochissimo e ormai le statistiche ci dicono che in Italia quelli che non leggono sono la maggioranza della popolazione. Internet sarebbe una straordinaria risorsa, ma vi accede solo chi sa cosa cercare, autentico paradosso ora che c’è tutto a disposizione. La scuola va un po’ come tutta l’Italia: è affidata alla buona volontà delle persone. Alcuni insegnanti sono di livello o spesso di straordinaria qualità, trasmettono conoscenza e buona cultura per loro volontà e non perché siano premiati. Quindi per i ragazzi l’incontro con insegnanti motivati e che li motivano è una questione di fortuna. Altrimenti i giovani si spengono… e devo dire che mi colpisce molto lo scoraggiamento, la forte demotivazione che il clima generale trasferisce su di loro. Non puoi vivere da adolescente come un vecchio che pensa che non troverà lavoro, che sarà povero. È passato il messaggio negativo che con le proprie passioni non si vive”. Che gioventù vedi all’estero? ”In tanti paesi c’è una vitalità incredibile, mentre da noi il clima è mortifero. Penso alla Turchia o al Sudamerica, agli stessi africani. Il lavoro grande che va fatto è ridare coraggio ai giovani, perché è il coraggio che ti fa cambiare le cose”. Sempre rimanendo all’estero, come sai molti Istituti di cultura italiana stanno chiudendo o sono in gravi difficoltà… “Ne ho girati tanti e direi che svolgono assai bene la funzione dell’insegnamento della lingua italiana.. Poi, certo, potrebbero diventare qualcosa di più, comunicare ciò che l’Italia è adesso, è stata o sarà. Insomma dovrebbero far conoscere la nostra cultura. Questo dipende dalle persone che li guidano, dal loro entusiasmo. Negli ultimi anni ho incontrato persone giovani che probabilmente a seguito di concorso sono arrivati a dirigere istituti, sono motivati e, fatto importantissimo, parlano benissimo le lingue. È vero, i tagli non aiutano, ci vorrebbero anzi più risorse meglio distribuite”.
L’ultimo affondo lo concentriamo sull’universo femminile in relazione alla cultura. “La situazione è diversificata. Nelle scuole vedo ragazze forti e preparatissime. Le differenze si stanno scavando con le giovani che non possono studiare e che regrediscono ai livelli delle nostre madri, agli anni cinquanta. Lì vedo il riformarsi della società patriarcale e il discrimine è veramente l’istruzione. La mia generazione ha avuto gli stessi diritti nell’accesso, che è stato davvero paritario. Poi ciascuna si è scontrata con i vecchi retaggi culturali e abbiamo dovuto lottare, ma lo abbiamo fatto in solitudine e pensando che fosse un problema individuale. In generale sulle donne c’è il problema che consumano cultura, ma che non sono tante quelle che la producono: le registe, le editrici, le autrici. Insomma, c’è parecchio da conquistare, ancora”. Una battaglia da combattere oggi, assolutamente, in relazione alla cultura del nostro Paese? “Le disuguaglianze sociali sono troppe e troppo forti e quindi l’obiettivo primario deve essere la giustizia sociale. Se lo Stato si mangia i soldi che invece dovrebbero essere investiti sui giovani e sulle opportunità, la comunità non tiene”. E se non c’è senso di appartenenza non c’è comunità né cultura. E questo Melania Mazzucco ce lo aveva già detto all’inizio della nostra conversazione.
FOTO. Melania Mazzucco a L’Avana (Cuba), ritratta accanto alla statua di Ernest Hemingway. Foto di Tiziana Bartolini
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